Il reddito di cittadinanza deve restare, salvo una piccola modifica: abrogare la parte ipocrita della disposizione. Ossia l’illusione di poterlo considerare un fatto temporaneo, di dignitosa sopravvivenza in attesa di un lavoro. Che non verrà mai, perché il reddito di cittadinanza è generalmente una misura sociale, un sussidio per aiutare chi non ce la fa, a prescindere da fisiologiche furberie e storture da cui sono afflitti tutte le attività umane, comprese le leggi.
Molte persone con reddito di cittadinanza, infatti, non hanno molto da offrire al mondo del lavoro. E quindi o il reddito o la fame. In un Paese civile possiamo permetterci la condanna alla fame? È questa la domanda e penso di no.
Quello che invece dovremmo permetterci e non ci permettiamo mai, è la modifica coraggiosa del sistema formativo per smetterla di sprecare risorse pubbliche per la formazione e però fabbricare potenziali percettori di reddito di cittadinanza.
E andiamo al dunque. Il nostro mondo del lavoro richiede, anche nei lavori un tempo considerati più umili, specializzazioni ben ancorate all’interno di un sistema fondato sull’informatizzazione, sulle catene di produzione o sulle più sofisticate macchine a controllo computerizzato. Il tutto da considerarsi, peraltro, non come traguardo stabile, ossia con durata di almeno qualche anno, ma come prototipo d’ulteriore e quotidiana innovazione e robotizzazione; una gara di virtù, genio e bellezza velocissima, senza che nulla possa arrestarla.
Non è frutto del caso, infatti, la statistica di un’ampia offerta di lavoro non assegnata per carenza di domanda. Una statistica peraltro sempre crescente, perché crescente è il livello d’innovazione, purtroppo non fronteggiato dalle politiche pubbliche di formazione.
In un Paese normale, infatti, i programmi di formazione dovrebbero essere più avanti che nelle fabbriche e non più indietro. Dovrebbero avere l’orologio almeno cinque minuti avanti e invece accade il contrario. Mentre la fabbrica produce il rasoio elettrico i formatori sformano esperti di affilatura delle lame. Prima arriva la fabbrica e poi, dopo almeno un lustro, i programmi di formazione delle istituzioni pubbliche. Con conseguenze paradossali: all’atto della conclusione del percorso di formazione si festeggia l’acquisizione di una competenza per lavori ormai fuori mercato.
Ribaltare le politiche di formazione, anche al costo di creare subbuglio nelle più consolidate e tradizionali agenzie (?) di formazione, finanziando programmi ad altissima innovazione e magari svolgendole sul campo dell’impresa. Un programma con contenuti in grado di sterilizzare progressivamente il reddito di cittadinanza (o di garantire importi più corposi ai pochi che proprio non ce la fanno) perché nessun uomo è contento di guadagnare meno se può guadagnare molto di più.
Rivoluzionare la formazione, centralizzando almeno a livello statale i criteri (altro che autonomia differenziata) e sottraendoli da un regionalismo molto propenso all’ignavia su riforme in grado di dispiacere, comporterebbe una pluralità di effetti vantaggiosi, compreso quello di ridurre la spesa sociale per il reddito e non solo.
È con l’innovazione nella formazione che si riduce il costo sociale delle persone espulse dal mercato del lavoro, bisognose di aiuto per sopravvivere; non si combattono gli effetti chiudendo gli occhi sulla causa.
L’Italia è un Paese con politiche di formazione al lavoro fondate per corrispondere più ai costi esorbitanti dei complessi ingranaggi della macchina formativa che alla domanda di occupazione. Un vizio, questo, antichissimo, comune alle politiche sociali e descritto sin dal 1877 da Jessie White Mario ne “La miseria in Napoli”: la burocrazia della formazione e dell’assistenza divora la maggior parte delle risorse.
Anche e soprattutto per questo siamo sempre alle prese con l’aumento della spesa pubblica, ossia nell’uso smisurato delle tasse pagate dai cittadini, consolidandoci sempre più al vertice dei Paesi europei con maggiore spesa pubblica rispetto al PIL (siamo al secondo posto, dopo la Francia); nel 2022 il 54,3%, pari a 1.890miliardi di euro, con un incremento del 3% rispetto al 2021.
Un Paese, insomma, i cui numeri dicono, senza rischio di smentita, la forte tendenza statalista, refrattaria non tanto a ogni forma di più temperato liberalismo ma a ogni piccolo vagito di buon senso.
Ma questa è una predica inutile, perché come al solito il problema non è la logica ma la paura di riformare e bruciare barbe e parrucche. E allora avanti così: reddito di cittadinanza sì, reddito di cittadinanza no. Per far credere ciò che non è, e non prendersi la briga di scegliere il campo delle parole chiare.