È il mercato l’antidoto a dazi e sovranismo

È il mercato l’antidoto a dazi e sovranismo

Quando i politici perdono il senno e la democrazia vacilla, l’economia di mercato – fredda, impersonale, ma implacabilmente razionale – resta spesso l’ultimo argine contro il disordine e l’insensatezza. Non sarà il massimo della poesia, ma ha il pregio di dire la verità in tempi di delirio.
Nel mondo agitato dalle derive sovraniste e nazionaliste, dai dazi che dividono, dai muri che chiudono e dalle parole d’ordine gridate senza idee né pensieri, sorge una domanda: chi può fermare la corsa verso l’insensatezza, senza dover attendere il meccanismo lento delle urne? La risposta è semplice, spiazzante e implacabile: l’economia di mercato.
Sta accadendo con Donald Trump, idolatrato fino al momento in cui le borse – molto meno sentimentali degli elettori – hanno cominciato a stropicciarsi gli occhi. A quel punto, anche da questa parte dell’Atlantico, qualcuno ha iniziato a fare i conti con l’imbarazzo del guardaroba: dopo aver provato a indossare l’abito buono del patriottismo trumpiano, Giorgia Meloni si ritrova oggi a spiegare ai suoi patrioti che nel patriottismo, come nei saldi, c’è sempre qualcuno più svelto di te a prendersi la tua vetrina e a svuotare le tasche dei tuoi sostenitori.
Accadde con Silvio Berlusconi, quando i mercati, con l’impassibilità crudele degli spread, decretarono la fine di un’epoca, aprendo la strada al Governo Monti. Non fu un voto a detronizzarlo né la dissoluzione della sua maggioranza, ma il giudizio silenzioso e tagliente di chi compra e vende titoli di Stato. Il tutto senza bisogno di conferenze stampa.
E allora diciamolo con chiarezza: la democrazia e l’economia di mercato non sono in conflitto, come vuol far credere l’alleanza tra finti progressisti e veri reazionari. Sono, piuttosto, due facce della stessa medaglia. L’una presuppone l’altra, la sostiene, la limita, la rafforza. Dove manca la libertà economica, anche quella politica si inaridisce. Dove non c’è pluralismo produttivo, anche quello delle idee si spegne. E in assenza di concorrenza, tutto si appiattisce, compresi prezzi e pensieri.
Questo non significa santificare il mercato, perché nelle cose della vita non c’è nulla di profondamente sacro oltre il Sacro, ma riconoscerne il ruolo di sentinella. Quando la politica impazzisce, il mercato si ribella. Non per moralismo, ma per istinto di sopravvivenza. E tuttavia, in quel calcolo c’è una forma rozza ma reale di razionalità collettiva. È come il vento nel deserto: non lo vedi, ma appena comincia ad alzarsi un po’ di sabbia capisci subito l’arrivo prossimo della tempesta.
Da qui una seconda domanda, ancora più urgente: può davvero dirsi democratico, nel profondo, chi lotta contro l’economia di mercato, agitando disuguaglianze che sarebbero invece ben più gravi con sistemi a maggiore controllo statale? Può esserlo chi sogna modelli chiusi, autocentrici, “decrescite felici” che somigliano più a una lapide sulla tomba che a un programma politico? La risposta, se si ha il coraggio di guardare in faccia la realtà, è no. Non si dà democrazia senza mercato. Non si dà pluralismo senza concorrenza. Non si dà libertà senza possibilità.
Un sincero democratico, privo di ideologismi, di utopie vintage e di retoriche illusorie, non combatte il mercato. Lo regola, sempre con l’impronta della libertà, per non farne un giardino esclusivo ma nemmeno un campo abbandonato. Sa che il mercato può essere nel brevissimo termine iniquo, correggendo per questo e con parsimonia qualche effetto, ma sa anche che ogni alternativa ha sempre prodotto meno giustizia e meno libertà. E non si fa incantare da chi, per combattere il “mercato”, finisce per barattare la libertà con l’uguale infelicità.
Nel tempo dei sovranismi velleitari, l’economia di mercato resta una forma di ragione. E spesso, l’ultima trincea della democrazia. Bisognerebbe ricordarselo prima di scagliare l’ennesimo anatema contro “il mercato”. Perché a volte è proprio lui, con i suoi freddi numeri, a dire ciò che i politici non osano neanche pensare. «E se questi taceranno, grideranno le pietre»? (Lc 19,40). Sì. Nel nostro caso, quelle pietre si chiamano spread, deficit, disoccupazione.
Fabiano Amati

Articolo Gazzetta 19 apr 2025

Pubblicato da

Fabiano Amati

Nato a Fasano, in provincia di Brindisi, il 18 ottobre 1969. Laureato in giurisprudenza presso l’Università di Bari, svolge la professione di Avvocato. E’ attualmente Assessore Bilancio, Ragioneria, Finanze, Affari Generali della regione Puglia.