di Amati Fabiano
L’obiettivo sulla carta c’è: diagnosi precoce e accesso ai farmaci innovativi, supportati dagli straordinari passi in avanti della genetica e della genomica. Facile a dirsi e difficile a farsi.
Dicono che il Mezzogiorno sia in ritardo. È così, ma il resto del Paese non se la passa poi meglio, avvolto in procedure attorcigliate intorno a gruppi di studio e conferenze, tavoli e tavolini, organizzati per non perdersi nemmeno un po’ dei poteri nuovi. Ed è così che procedure semplici e alla portata di tutti stentano a diventare prassi, immolando nelle lungaggini tante vite e tante speranze.
Andiamo per esempi, la scienza della praticità.
Primo: screening per l’atrofia muscolare spinale (Sma). Una goccia di sangue prelevata dal piedino di tutti i neonati, per sapere senza dubbi se quel mostro, che fa spegnere i motoneuroni e progressivamente tutti i movimenti, ha trovato alloggio. Casi rari ma ci sono, e portano dolore e sofferenza. C’è una legge dello Stato che sin dal 2018 impone lo screening obbligatorio e consente così di approfittare, in fase presintomatica, delle più innovative terapie, comprese quelle genetiche. Purtroppo l’attività non parte, perché da quasi tre anni si attende l’aggiornamento dell’elenco degli screening da parte dal ministero della Salute. Una sequenza raccapricciante di riunioni e tavoli, come se l’Amministrazione fosse una gigantesca falegnameria; e se per caso ci si dimentica d’invitare un qualsiasi portatore d’interessi bisogna ricominciare daccapo. E intanto i bimbi malati nascono e si ritarda nella terapia, aprendo pure conflitti tra politici accordati con la prova scientifica e scienziati arrivati in politica per dimenticarsi la scienza. Ma qualche spiraglio c’è, all’italiana, un po’ per aggiramento e un po’ per sopravvivenza. Progetti pilota, come hanno fatto in Lazio e Toscana, come espediente per dire “lo faccio ma solo come esperimento”; oppure fregandosene del galateo leguleio e burocratico, come accaduto in Puglia, e facendolo partire con legge e per tutti i neonati – altro che progetto pilota! – e con il Ministero che per pudore ha deciso di soprassedere da un’impugnativa dinanzi alla Consulta che sarebbe sembrata una commedia processuale: convenire cioè in giudizio una Regione perché osa fare prima ciò che il Ministero tarda a disporre per tutti. Dunque, Puglia per tutti i neonati e Lazio e Toscana come esperimento fanno lo screening, e gli altri neonati italiani? Niente. Una differenza di trattamento fuori da ogni grazia.
E avanti con gli esempi. Sequenziamento dell’esoma. Si tratta di una tecnica con cui dall’1 per cento del Dna si possono diagnosticare l’85 per cento delle malattie rare. Una meraviglia di predittività, con tecnologie che migliorano giorno dopo giorno, in grado di affinare la profilassi, calibrare le cure ed eventualmente sottrarsi al rischio. Escludiamo gli esiti di mera predittività del test, cioè conoscere in anticipo il rischio di ammalarsi per poi asportare gli organi obiettivo (per intenderci, il caso di Angelina Jolie), e i casi di turbamento etico per la conoscenza di una diagnosi potenzialmente infausta e però priva di protocolli terapeutici. Mantenendoci nella gestione ordinaria del test, in Italia non esiste in termini strutturali e a carico del servizio sanitario nazionale l’utilizzo della tecnica del sequenziamento, con puntualizzazione dei laboratori di genomica di riferimento e protocolli definiti. Tutto è lasciato alla buona volontà dei genetisti, i quali sono costretti a ricorrere a decine di escamotage pur di assicurare la prestazione. Nei nuovi come nei vecchi decreti sui Livelli essenziali di assistenza (Lea), ossia la “tavola” burocratica, meno accordata con i progressi della ricerca scientifica, l’allestimento avviene a buccia di cipolla. Un primo strato è la legge: dopo averla approvata sembra cosa fatta ma non è così.
Il secondo strato è il decreto sui LEA con l’elenco dettagliato e illeggibile – per volume – di ciò che si può fare, ma non basta ancora. II terzo strato è la decisione sulle tariffe di ogni singola prestazione annoverata nell’onnipresente libro Lea, quale condizione per attivare la prestazione e quale sub condizione per eseguire la legge. È un gioco? Si. Un gioco fatto di perdite di tempo con la giustificazione della complessità e della prudenza, che ormai sembrano gli antagonisti di quella particolare condizione umana che invece andrebbe affrontata giocando d’anticipo sui tempi: la malattia. In Puglia è stata approvata una legge che mette ordine e definisce la tecnica del sequenziamento dell’esoma. Prima e unica regione italiana. I tecnici del Ministero segnalano però che la prestazione non è prevista nei Lea, sempre loro, e altre obiezioni marginali e susseguenti. II Consiglio regionale ribatte che le prestazioni sono nei Lea del 2017, indicando pure i codici. I tecnici del Ministero rilanciano, allora, con la notizia che i Lea del 2017 non sono ancora efficaci, perché manca la definizione delle tariffe. Il Consiglio regionale pronto rintuzza, indicando che anche nei Lea precedenti, quelli del 1996, la tecnica è prevista. Risultato del tram tram? L’impugnazione dinanzi alla Consulta è confermata dal Governo ma non più sulla violazione dei Lea ma su altri profili marginali, preoccupandosi però di segnalare che il ricorso rappresenta un moto di equità, una sorta di misticismo fatto di glorioso svuotamento di sé per far posto all’Altro, così da evitare che i cittadini pugliesi abbiano prestazioni maggiori rispetto a quelli delle altre regioni.
L’equità, una parola ingannevole in questo contesto. Non sarebbe più equo, fuori dai moti mistici, fare in modo che tutte le regioni assicurino le stesse prestazioni piuttosto che rallentare le regioni con maggiore buona volontà? Risposta scontata. Già scriverla sembra un oltraggio. Ricapitoliamo. C’è una regione, la Puglia, che prova ad assicurare a larga scala, nell’ambito del sistema sanitario, una tecnica diagnostica di grande innovazione. Lo Stato crea intralci e i genetisti continuano a effettuare per moto spontaneo meritorio e in modo disordinato le prestazioni. Nel frattempo, le Regioni rimborsano tutte le prestazioni, sulla base dei Lea del 1996, e in attesa di avviarsi verso l’elenco più puntuale contenuto nei Lea del 2017. Ma c’è un però – teniamoci forte! -: quest’ultima previsione del 2017 consente di sequenziare solo sino a 47 geni su un pannello clinico complessivo e utile di circa 4mila. Si pensi che è di 63 geni, cioè molto di più dei 47 massimi autorizzati nei Lea, il pannello da sequenziare per la forma più ordinaria di retinite pigmentosa. E allora che succede? Semplice, il genetista spezzetta le prescrizioni, chessò una da 33 e l’altra da 30. Totale 63, ma la prescrizione è corretta perché ognuna è contenuta nel numero “magico” di 47. Ce n’è ancora? Certo.
Terzo esempio.
Le donne ammalate di carcinoma mammario, tumore molto diffuso, possono essere aiutate a evitare la chemio qualora il test genetico sul tessuto rimosso dia esito incerto. Questo test quindi (in commercio da diversi anni e purtroppo sino a qualche tempo fa non utilizzato nel servizio sanitario italiano) esclude dalla chemioterapia adiuvante le donne che da questo trattamento ne potrebbero ricevere più danni che benefici. L’Italia decide di colmare il ritardo grazie al Covid, perché – si ragiona dalle parti del Ministero – conoscere con sicurezza i casi che hanno bisogno di chemio e quelli che non ne hanno bisogno aiuta a ridurre gli accessi negli ospedali e i rischi di contagio. Insomma, questo test genetico arriva, finalmente, non tanto per colmare un ritardo ma come misura per ridurre gli assembramenti ospedalieri. In un modo o nell’altro, comunque, grazie a Dio. E allora viene adottato a maggio scorso un decreto ministeriale, concedendo alle Regioni due mesi di tempo per adeguarsi e partecipare al riparto delle risorse messe a disposizione. A settembre, probabilmente invidiose della lemma ministeriale, cinque regioni (Piemonte, Veneto, Molise, Puglia e Calabria) non avevano ancora provveduto ad accogliere la già tardiva sollecitazione. La Puglia – va precisato – nel frattempo ha provveduto; speriamo che anche le altre quattro abbiano fatto altrettanto. Per non farci mancare nulla, anticipiamo il prossimo probabile intoppo ma solo al fine di non intoppare. Alcuni studi avanzati concludono sull’utilità del test genetico da eseguire sulle pazienti affette da carcinoma mammario anche in fase pre-operatoria per valutare nel complesso tutto il percorso terapeutico e non solo la scelta chemioterapica. Senza addentrarci nei dettagli scientifici, si preannuncia dunque la necessità di aggiungere il test tra gli esami di prammatica nel percorso diagnostico e a carico del servizio sanitario. Non sarebbe il caso di farci trovare pronti? Non possiamo sperare ogni volta in una pandemia per fare passi in avanti. Può bastare?
Facciamo un altro esempio.
Andare a più di tre può emanciparci dall’anedottica alla statistica. E quattro sia. Brca1 e Brca2. E non è la sigla di un volo da Bari a Cagliari. Queste due sigle significano “Gene del cancro al seno”. Si tratta in sostanza di test genetici in grado di dirci se la maledizione di un cancro al seno è stata la conseguenza di un colpo di sfiga oppure un “regalo” genetico degli avi. La conseguenza di questa notizia ha un duplice valore nel processo di risparmio di vite umane: sia per la paziente interessata (nella prospettiva di una probabile recidiva) che per i suoi parenti più o meno stretti. Per la paziente il test è a carico del servizio sanitario – almeno questo per compensare tanta “fortuna” – ma non è previsto, sia pur con quota di compartecipazione alla spesa, per i suoi parenti perché quei test non sono autorizzati come screening generalizzato dal solito elenco Lea. E qui le valutazioni sono due. Una, l’opportunità di considerarlo, nel “librone” Lea e al più presto, quale screening generalizzato in grado di risparmiare vite umane e risorse economiche. Due, non si può accettare l’idea che possa essere considerato screening invece che una procedura di diagnosi avanzata, la sottoposizione al test di persone nella cui catena di parentela è stata riscontrata una mutazione genetica, idonea – in termini di probabilità – a far scoppiare il caso di malattia. In altri termini: c’è una persona ammalata che attraverso i test Brca1 e Brca2 riscontra la propria predisposizione genetica. Ciò dovrebbe suggerire l’estensione a carico del servizio sanitario e con il regime della compartecipazione alla spesa, del test ai familiari di primo grado (genitori, fratelli, figli), così da verificare l’ulteriore predisposizione genetica e quindi una necessaria e più approfondita attività periodica di sorveglianza, come lo può essere la più dettagliata risonanza magnetica al posto dell’ordinaria mammografia. Ma purtroppo non si può fare perché, come al solito, non è previsto nei Lea. Un non senso che ci costa in termini di vite umane e assistenza in misura di molto maggiore, come conseguenza di diagnosi tardiva o non tempestiva. E ora basta con gli esempi.
La genetica e la genomica sono scienze veloci e introducono nuove tecnologie nel tempo che la burocrazia riesce a digerire quelle precedenti e diventate già vecchie. Questo è il problema. ll plotone dell’innovazione non può marciare al passo di uno Stato che ha il gusto sadico di svolgere la parte del soldato più lento. E a questo punto si spera che a nessuno venga in mente di organizzare un tavolo tecnico per analizzare le lentezze con cui combattere la lentezza. La malattia burocratica dell’Italia in sanità è certamente grave ma per essere curata servono solo vecchie e sempre efficaci medicine: lavoro e decisione.
Intervento pubblicato su Quotidiano del Sud Bari Bat Murge di domenica 14 novembre 2021, pagina 6