Non spetta ai giudici decidere la sorte dell’Ilva, sostituendosi ad altri poteri. Se l’amministrazione pubblica ha «male operato nel passato, non è ragione giuridico-costituzionale sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria oltre la decisione dei casi concreti. Una soggettiva prognosi pessimistica sui comportamenti futuri non può fornire base valida per una affermazione di competenza».
Lo scrivevano i giudici della Corte costituzionale per respingere la questione di costituzionalità sollevata dal GIP di Taranto contro il decreto «salva Ilva», che prevede la continuazione dell’attività per non più di 36 mesi per grandi fabbriche sottoposte a sequestro e dichiarate d’interesse strategico nazionale. Vergando il principio con puntuta e dolorosa chiarezza, i giudici imponevano la legge e retrocedevano gli istinti. A cominciare dall’istinto primordiale, quello del prelievo per punizione di libbre di carne dagli “odiosi” responsabili dello scempio. Carne pagata con carne, apoteosi della retribuzione: all’occasione l’inchiesta penale è formidabile per raggiungere questo scopo.
All’impronta il principio introdotto con la sentenza della Corte è potuto sembrare (e forse lo sembra ancora) un tentativo di nascondere agli occhi la vergogna. Non vi è dubbio che il cammino di quella fabbrica è stato costellato assieme di lavoro e vergogna, di speranza e frustrazione. Una mano prendeva lo stipendio e l’altra restituiva con la vita i frutti della mercede. Quanto vergognosa è stata negli anni la debolezza dell’amministrazione pubblica nel farsi valere. Quanti silenzi sono stati restituiti a tutte le notizie di malattia e morte che per lustri hanno bardato le mura di Taranto e delle città vicine. E chissà per quanti anni ancora si continuerà a provare vergogna per un’insurrezione che non è mai venuta.
La politica accettava con colpevole leggerezza l’idea che l’Ilva fosse lo Stato (lavoro, stipendio e futuro) – del resto nacque con questo intento; il sindacato contava i grandi numeri delle tessere sottoscritte dai lavoratori, non andando oltre il contratto e la sicurezza sui luoghi di lavoro; la magistratura catalogava con timidezza esposti e denunce, senza fibrillazioni, aprendo i processi solo per fatti circoscritti dalle leggi penali di settore, che prevedevano sanzioni più o meno al rango delle pene pecuniarie e che per entità potevano essere iscritte a bilancio tra i rischi d’impresa. Ma può tutto questo fardello di vergogna e silenzi opprimere, tacitare e mettere in soggezione la politica industriale del futuro? Possiamo assistere, inerti, alla giustizia che agli inserti in ermellino aggiunga l’insegna del giustiziere? No, non si può.
Sono sempre i giudici della Corte costituzionale a dire parole congrue: quando si oltrepassa «l’incerta linea divisoria tra provvedimenti cautelari funzionali al processo, di competenza dell’autorità giudiziaria, e provvedimenti di prevenzione generale spettanti all’autorità amministrativa» non si può che osservare il tentativo di inibire l’intervento del potere politico, per raggiungere una finalità peraltro esplicitata dai giudici tarantini: chiudere l’impianto. Non c’è dubbio che quella della chiusura è un’ipotesi, ma il compito eventuale di raggiungerla non spetta ai giudici ma agli organi che detengono il potere di definire – con la discrezionalità del caso – la politica industriale del nostro Paese e cadenzare i tempi e le modalità di un necessario risanamento ambientale.
È tutto qui lo scontro. E non c’è potere diverso da quello politico, piaccia o non piaccia, che possa reclamare il diritto a pronunciare soluzioni. La nostra Costituzione, che non è la più bella del mondo a fasi alternate – come possono dire solo quelli più misurati nel celebrarla, non contiene gerarchie di diritti: il più e il meno importante, quello che soccombe e quello che prevale. Il diritto alla salute non è il tiranno di quello al lavoro, nella stessa misura in cui quest’ultimo non è il becchino del primo. La loro interdipendenza non appartiene alla statica dei tempi in cui furono affermati, ma alla dinamica della ponderazione nei tempi in cui emerge la necessità di confrontarli e paragonarli.
A chi spetta il diritto – questo sì prevalente – di ponderare? Al potere politico. Ed è lo stesso che ancora non sforna – gravato dallo scontro aperto tra poteri dello Stato – una strategia industriale per uno stabilimento dichiarato con legge d’interesse nazionale, mettendo però a rischio, per via di quest’inerzia, anche il risanamento dell’area. Non c’è bisogno di particolare acume e saggezza per accorgersi che alla fine dello scontro si rischia di risvegliarsi con la fabbrica chiusa e con le sue aree abbandonate all’autocompimento – chissà per quanto ancora – della loro missione di inquinamento e di morte.
Basta un aggirarsi superficiale sulle nozioni scientifiche di base per istruirsi sulle scarse possibilità d’interrompere con la chiusura dell’impianto il processo distruttivo dell’ambiente. A meno che una disposizione economica pubblica e plurimiliardaria non venga indirizzata alla missione del risanamento. Ma di questi tempi prevale il dubbio sulle reali possibilità di tanto prodigo intervento. È per questo che i provvedimenti dei giudici non possono contenere l’ambizione al raggiungimento di scopi diversi da quelli di sanzionare i reati.
Che questo stia accadendo non è una maldicenza. La motivazione del provvedimento di sequestro dei materiali realizzati è illuminate. «Senza ulteriore indugio occorre bloccare il prodotto dei reati contestati e quindi il profitto di essi che altrimenti si consoliderebbe nelle tasche degli indagati attraverso la commercializzazione dell’acciaio, cioè sulla ‘pelle’ degli operai dell’Ilva e della popolazione interessata all’attività inquinante del siderurgico che invece occorre bloccare».
Appunto, bloccare. Si prova ad inibire la strategia industriale del paese, che deve comunque confrontarsi sempre con le leggi ambientali e con una pubblica amministrazione auspicabilmente forzuta, con un provvedimento di cautela penale, che si trasfigura in atto d’amministrazione attiva. Non credo che il futuro della buona salute e del lavoro possa girare così.
Non sta sulle scatole solo a magistrati, ma a tutti, l’immagine restituita da un’inchiesta giornalistica girata qualche anno fa sui morti di Ilva. Risulta irritante – a tutti – rivedere una giovane giornalista che tenta di chiedere a Emilio Riva – invano – se i tumori di Taranto siano conseguenza dell’attività dell’azienda, ottenendo in risposta un’eclatante pedata, calciata da uno stretto collaboratore del «padrone». Ma tutto ciò giustifica la decisione per via giudiziaria della morte della strategia industriale del Paese ed assieme del risanamento ambientale di Taranto?
Non credo.
Dai magistrati ci si aspetta la punizione per i reati, possibilmente in silenzio. Quello stesso silenzio che dovrebbe inibire la riproduzione dell’immagine dei Pm o dei Gip sui giornali. Ma questa è un’altra storia: attiene alla più urgente riforma delle forme di comunicazione degli atti di giustizia, che ormai rappresentano da sole il primo, il secondo e il terzo grado della giurisdizione.
Se la comunicazione diviene parte preponderante della giurisdizione, diventa difficile pensare che la sorte dell’Ilva possa essere accompagnata con le parole dell’interesse nazionale e del risanamento ambientale. Almeno nell’immediato e sino a quando l’assuefazione alla “notiziabilità” dell’inchiesta avrà portato inesorabilmente al pubblico disinteresse. Solo allora ci accorgeremo di aver perso tempo, ripartendo esattamente da dove avremmo dovuto cominciare da subito.
Visita Linkiesta.it