di Fabiano Amati
Le armi agli ucraini e l’aumento delle spese militari, stanno nel film Tolo Tolo di Checco Zalone. Un film sulla disumanità, che sceglie Nichi Vendola per interpretare il narcisismo etico, ossia il bene che si compiace in sé stesso, come avrebbe detto Franco Cassano ne L’umiltà del male. La scena: Zalone prigioniero chiama il giardiniere Vendola per un aiuto nel pagamento del riscatto. Vendola è infastidito dalla telefonata di Checco e «approfitta» per un sermone incomprensibile. Niente, non si capisce niente: «Prova in libico, se si capisce», dice Zalone sconfortato passando la cornetta al suo tiranno. Il prigioniero Checco è come un ucraino in fuga con i suoi bambini e non ha voglia di discernere su cause, effetti e posizioni «né-né»: è un uomo sotto le bombe e chiede immedesimazione, «il bombardato sono io e sono qui», come fece don Tonino a Sarajevo. Gli ucraini chiedono aiuto per non schiantarsi nella curva della morte e non per farsi confortare. Non attendono il sole dell’avvenire promesso da una nuova versione di intellettuali che pensano per come ci vorrebbero e non per come siamo. Questo tipo di intellettuali non ha l’abitudine di confrontarsi con la realtà e il suo carico di dolore e morte. In una parola, la storia per com’è, quella che ha cura di restituire «le lacrime delle cose e non le vostre lacrime», come scrisse Francesco De Sanctis. I drammi della storia non possono essere sostituiti – come ha detto Galli Della Loggia – da un’etica universale approdo di due previsioni fallimentari, la vittoria del proletariato e la capitolazione del globalismo, oggi rilanciate sotto le mentite spoglie dei diritti individuali e dell’ecologismo come surrogato della lotta di classe. Checco Zalone di Tolo Tolo chiede di aiutare gli ucraini in fuga dalla bombe, con le armi per difendersi e come si dovrebbe fare per chi resiste a un aggressore forte e prepotente. Se ci fosse mia figlia sotto le bombe russe, io chiederei di difenderla e di aiutarmi nel farlo.
Sicuro! E come me penso tutti. E sarei contento se la pace arrivasse prima delle armi. Sia chiaro! Non è pacifista chi sostiene la resistenza quando riguarda la storia e guerrafondaio chi la sostiene quando appartiene all’attualità. Non è guerrafondaio chi da qui evita di dire «Kiev, Mariupol, Odessa siamo noi», ma urla «aiuto, è mio figlio il bimbo di Kiev, Mariupol, Odessa». Il sentiero della pace non è un’intrusione nella realtà con parole dette con ammirevole tecnica lirica, valide più per il suono che per il senso. E una pratica immersa nella storia dell’umanità, fatta anche di aiuti militari da preferire a interventi diretti per non toccare il punto del non ritorno. Pure l’aumento della spesa militare non è un favore agli apparati industriali. La spesa militare è deterrenza. È una politica di prevalenza strategica dei paesi democratici, per dissuadere i dittatori come Putin da aggressioni imparentate con guerra, morte e povertà.
Pensieri plebei? Chiediamolo a Dietrich Bonhoeffer, teologo cristiano, oppositore di Hitler, strangolato nel campo di Flossenbürg: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, semi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante». Zalone, cittadino ucraino di Tolo Tolo, chiede di saltare e afferrare il conducente al suo volante, perché non si aiuta chi muore con le parole dei principi che scegliamo per noi. Non possiamo lasciare morire senza aiuti gli ucraini per preservare l’equilibrio che fa comodo a noi, così come non possiamo più farci tro vare militarmente impreparati per il comodo di tutti i Putin che verranno.
Articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 21 marzo 2022