di FABIANO AMATI
dal Corriere del Mezzogiorno del 11 aprile 2025
Vietato vietare l’intelligenza artificiale a scuola
Il divieto di usare l’intelligenza artificiale a scuola non è un atto educativo. È un istinto.
Un riflesso condizionato, come quello di chi chiude gli occhi davanti a una luce troppo intensa. Solo che qui la luce è quella del futuro. E a chiuderli, come spesso accade, sono gli adulti.
Non c’è pedagogia nel proibizionismo digitale: c’è solo paura. Paura di perdere il controllo, del confronto, del ribaltamento gerarchico: il docente che inciampa, l’alunno che vola.
E allora via coi divieti, come se bastasse spegnere il router per bloccare una rivoluzione epocale.
Ma lo sappiamo: i divieti non arrestano la realtà. La clandestinizzano. E spesso la esaltano.
Così nasce una scuola schizofrenica: si chiede spirito critico, ma si proibisce lo strumento che oggi più di ogni altro potrebbe esercitarlo. Si parla di futuro, ma si ragiona con l’eco del passato.
Il problema vero non è (solo) pedagogico. È generazionale.
Da un lato, studenti che usano l’intelligenza artificiale come estensione del pensiero e trovano ogni via — bravi! — per eludere i divieti. Un po’ come i predecessori con le cartucciere.
Dall’altro, docenti spesso in difficoltà a cogliere la portata della rivoluzione in corso, che reagiscono reclamando lo scudo della proibizione.
Ma vietare ciò che non si conosce è una forma passiva di censura, e insieme un modo garbato per mascherare i ritardi di adattamento.
La soluzione è semplice: non vietare l’IA agli studenti, ma imporne la conoscenza agli insegnanti.
Formazione obbligatoria, estesa, continua. Non per umiliare nessuno, ma per rimettere tutti in pari.
Non con il metro della gerarchia scolastica, ma con quello della realtà, che — nel campo dell’IA — sta già capovolgendo ogni gerarchia.
Solo così sarà possibile valutare non l’assenza dell’IA, ma la qualità del suo uso. Come si fa con qualsiasi strumento: la calcolatrice, la grammatica, il cervello.
L’autenticità del pensiero non risiede nei divieti, ma nella capacità di guidare la macchina.
Il vero discrimine oggi non è tra chi copia e chi non copia, ma tra chi sa usare l’intelligenza artificiale e chi no.
E per chi teme la sparizione della voce umana, c’è un rimedio antico e potente: ridare valore alla memoria, alla letteratura, alla prova orale.
Imparare poesie — unione semantica di “fare” e “sentire” —, allenare la mente a costruire frasi, immagini, nessi, idee.
E poi darli in pasto alla macchina, sì. Ma non per farsi sostituire: per farsi potenziare.
Chi avrà usato bene l’IA farà anche una grande interrogazione.
Perché non avrà copiato, ma costruito. Non si sarà nascosto, ma si sarà rivelato meglio.
Lo sforzo starà tutto nella capacità degli insegnanti di riconoscere l’intelligenza, anche quando è aumentata.
Un legislatore degno di questo nome non può proteggere chi rifiuta il cambiamento per paura, ma chi deve imparare per vivere nel mondo con gli strumenti della modernità.
Un Paese non muore per i giovani che non sanno, ma per gli adulti che non vogliono più imparare.
Si invecchia davvero quando si comincia a difendere il cervello già pieno, invece di onorare quello ancora da riempire.
Ecco perché la politica deve stare dalla parte del cervello vuoto, non dell’ego pieno.
È da lì che si rinasce.
Con mente aperta. E connessione attiva.