Amati: «Mai tanti poteri a un solo dirigente Emiliano faccia pulizia»

Intervista di Vito Fatiguso, “Corriere del mezzogiorno”, 31 dicembre 2021

BARI «La Protezione civile regionale che avevamo costituito con la giunta Vendola era fondata sulla sobrietà e sulla consapevolezza che bisognava indossare le stesse scarpe di chi aiuti. Purtroppo, gli eventi degli ultimi giorni ci dicono che alcuni funzionari non hanno camminato con le scarpe dei malati, dei terremotati, degli alluvionati, degli sfollati o di chi è in difficoltà ma con le scarpe di chi vende lavori e servizi per le persone da aiutare. Emiliano avvii una riflessione politco-amministrativa». Fabiano Amati (Pd), presidente della Commissione regionale bilancio, è stato il fondatore della Protezione civile regionale negli anni 2010-2014. Poi il testimone è passato ad Antonio Nunziante, fino al 2020, e attualmente a Michele Emiliano con il dirigente Mario Antonio Lerario (arrestato con l’accusa di aver intascato una presunta tangente da 10 mila euro) scelto dallo stesso Emiliano.

Amati, c’è amarezza per quella maglia blu della protezione civile che ora sembra stinta e grigia. Cosa ne pensa?
«Non è un bel momento, è triste vedere come tutto si sia fermato alla corsa agli appalti e alle forniture. Non era questa la missione iniziale».

Prima non si lavorava con il budget?
«Certo, ma evitando al massimo assegnazioni di commesse con procedure di selezione diretta. Le faccio un esempio. Nel 2011 il prefetto Franco Gabrielli chiese di poter utilizzare la struttura ex base Usaf di Brindisi-San Vito per allestire un grande hub d’accoglienza degli immigrati. Con Vendola demmo il via libera a una condizione».

Qual era?
«Che tutti gli affidamenti dei lavori dovessero essere gestiti dalla struttura nazionale. Proprio per lasciare l’unità regionale libera di lavorare senza la fila di questuanti alla porta».

Come andò a finire?
«Alcuni amministratori del posto, capendo che non c’era la possibilità di attivare catene di fornitura privilegiata, gridarono al pericolo immigrato. Non se ne fece più nulla».

Come organizzaste il servizio?
«Ci fu prima il dirigente Giuseppe Tedeschi, successivamente Luca Limongelli e Lucia Di Lauro. Tre splendide e oneste persone. Lo staff era formato prevalentemente da personale interno e un esercito di volontari. A loro il mio pensiero grato in questo momento difficile».

Controllava l’azione dei dirigenti?
«Certo, continuamente. La Protezione civile è un settore impegnativo che richiede verifiche frequenti. L’emergenza Covid, inoltre, ha ampliato il raggio d’azione della struttura assegnando competenze gestionali che alla fine hanno distolto dalla missione originaria».

Perché non si realizza la rotazione tra i dirigenti?
«È un principio sacrosanto che è contenuto nelle leggi anticorruzione ma si fa tanta fatica ad attuarlo. Si dovrebbe fare proprio per evitare corruzioni, appunto, e pure “deliri” di potenza, come per esempio il recente proliferare di comunicazione celebrativa a pagamento. Filmati, documentari e calendari. Non certo sobrietà e volontariato. A ciò si aggiungano le gigantografie stile Corea del Nord sulle pareti della fabbrica delle mascherine».

Lerario ha ricevuto da Emiliano una quantità impressionante di incarichi. È mai successo in passato?
«Non ricordo di casi così eclatanti e di settori così rilevanti ed eterogenei gestiti dallo stesso dirigente. Già la Protezione civile richiede un impegno esclusivo. Che dire: in Regione ci sono eletti del popolo, i consiglieri, che pur tra mille difetti non si permettono licenze, mentre diverse camarille, gruppi di pressione, spendono il nome di Emiliano per fare intermediazione nella gestione dei poteri pubblici. Basta avere gli occhi aperti e osservare frequenti capannelli che si creano con andamento trafelato tra anticamere, corridoi e parcheggi. Non proprio un contegno istituzionale».

Cosa suggerisce?
«Di questa situazione Emiliano deve prenderne atto e fare piazza pulita, convincendosi che il sistema di proliferazione del consenso con liste varie, comitati a non finire e acquisizione di classe politica senza arte e figurasi parte, e il tutto in chiave elettorale, porta con se alti rischi di deviazione. Il gioco non vale la candela».

Perché ha annunciato una verifica sulla congruità delle spese della Protezione civile?
«È nostro dovere capire ciò che è accaduto nella gestione amministrativa e contabile negli ultimi anni, per una tutela anticipata e ampia della Regione e a prescindere dai reati che potranno essere addebitati a singoli a conclusione di un processo».

Il piano casa è eco-edilizia che “recupera” e crea lavoro

 

di Amati Fabiano

Il Piano Casa è uno strumento di ecoedilizia utilizzato con soddisfazione da tutti i comuni pugliesi. Concepito diversi anni fa da uno dei governi Berlusconi attraverso una legge statale, oggetto di un’intesa tra Stato e Regioni, e introdotto nell’ordinamento regionale dal governo Vendola. Sino a quando quella legge statale e quell’intesa non saranno cancellati, la validità temporale dello strumento potrà essere prorogata. E chiunque provi sdegno dovrebbe bussare al Parlamento e chiedere l’abrogazione della legge statale che lo autorizza. Ma non mi pare che da quelle parti abbiano queste intenzioni.

Abbiamo lasciato però un punto in sospeso: perché il Piano Casa è uno strumento di ecoedilizia? Perché appaga il desiderio di una casa nuova, oppure ampliata, senza consumare nuovo suolo. ll Piano Casa vale infatti solo su edifici esistenti da ampliare nella misura del 20 per cento del volume o del 35 per cento nel caso di demolizione e ricostruzione. E sia l’ampliamento che la demolizione-ricostruzione sono previsti dalla legge nazionale. E anche su questo chiunque voglia scandalizzarsi dovrebbe bussare alle porte del Governo e del Parlamento, che peraltro ha proprio di recente ampliato (anche con i pochi voti della sinistra conservatrice) il potenziale virtuoso di queste possibilità, ammettendole pure in aree vincolate e nel rispetto dei Piani paesaggistici. È inappropriato, allora, limitarsi a “bombardare” le scelte del Consiglio regionale, sia perché gli appunti dovrebbero essere rivolti ai politici romani e sia perché così facendo si confessa un diritto di parola che però non si accompagna con il dovere di conoscere ciò che si dice.
C’è chi però rilancia, obiettando: è vero, non si consuma altro suolo ma si aumenta il carico urbanistico. Ammesso e non concesso che sia così, cioè che una casa ampliata comporti la nascita di tanti bambini da accogliere oppure che una casa realizzata dopo una ricostruzione abbia maggior carico di un vecchio opificio, si fa presente che le stesse cose che si fanno con il Piano Casa si possono fare con diverse altre leggi vigenti sulla riqualificazione e rigenerazione urbana, con l’unica differenza che ampliano la discrezionalità politica e tecnica, “allungando” la catena della decisione a eventuali “manine” e minando il concetto di edilizia come atto dovuto. I temi, cioè, dell’ecologia dell’uomo, come predica Papa Francesco.
Il Piano Casa, invece, funziona con il meccanismo del permesso di costruire diretto, in caso di aree urbanizzate, oppure convenzionato in caso di urbanizzazioni incomplete. È esclusa quindi l’ipotesi del cittadino che col cappello in mano si rivolge ai potenti di turno con tutto il carico di rischi corruttivi che ciò comporta. Certo, bisogna ammetterlo, l’edilizia come atto dovuto e senza mediazioni discrezionali, toglie potere a un gruppo di pianificatori agganciati e ben remunerati, presenti in tutte le degustazioni di vini e vernissage, che pretendono di decidere gli stili di vita delle persone, affacciandosi nella sociologia e nell’olismo, cioè quella pratica dialettica che aggiunge sempre un argomento sino a quando chi parla non riesce ad avere ragione.
Il Piano Casa avrebbe il difetto, secondo i suoi detrattori, di recuperare il vecchio patrimonio edilizio, pianificato da vecchi pianificatori, senza però ricorrere a nuove pianificazioni. Ma questa è semmai la sua virtù e non il suo peccato. La normativa esclude, infatti, un groviglio illogico e improduttivo, organizzato attorno alla catena della pianificazione delle pianificazioni, per pianificare ciò che in precedenza era stato pianificato e per prepararsi alla pianificazione di ciò che sarà certamente pianificato. Una babele di regole e di incarichi professionali, che può ben giustificare le ostilità più eclatanti.

Ma perché i sostenitori della pianificazione scalpitano, eccitando molte persone in buona fede al grido “mamma gli speculatori”? Sulla remunerazione delle prestazioni professionali perdute si è già detto; c’è però un altro motivo, più culturale, che però si fa fatica a riconoscere. Si tratta dell’adesione inconscia a un modello autoritario della vita, la pianificazione appunto, che in Italia fu affermata con prepotenza da Mussolini con la legge urbanistica del 1942, nel Reich con l’opera del ministro del Führer Walter Darrè e la sua nobiltà del suolo e del sangue e in Urss con il Gosplan (Comitato statale per la pianificazione). Non a caso lo statista della libertà italiana, Alcide De Gasperi, non parlerà mai di pianificazione ma di programmazione, e non è una distinzione da sofisti. Programmare significa dare durata alle cose che si fanno, riducendo il carico di ambiguità alla parola “cambiamento”, assicurando alle persone la libertà piena nel cogliere e non perdere tutte le occasioni che il mondo e il mercato propongono, con il limite della riduzione degli impatti e con l’obbligo di tendere la mano al soldato che marcia più lento; in particolare al più prossimo, a quello più vicino, a quello che s’incontra per strada, disperato sporco affamato o problematico, che l’intellettuale di casa nostra non riesce nemmeno a guardare perché proiettato con lo sguardo alle disuguaglianze più lontane, a quelle che non si vedono direttamente e che richiedono come impegno al più qualche saggio lungo o breve, oppure autoassolutorii tweet.

Pianificare significa, invece, organizzare un modello di mondo e di vita da elargire agli altri sul presupposto che gli altri non siano in grado di provvedere a se stessi. E se la proposta pianificatoria trova resistenze, al posto delle purghe non più di moda si avanza con il linciaggio carico d’odio a mezzo social, in nome del clan di “giusti”, pochi ma rumorosi, che sanno sempre distinguere (naturalmente nelle vite degli altri e mai nelle proprie) il bene dal male, il grano dal loglio. E la consueta idea del popolo incolto e rozzo, figurarsi se muratore, che ha bisogno della mano guida degli intellettuali per non deragliare. Chi poi siano questi intellettuali, quali e quanti libri bisogna aver letto per esserlo e qual è l’autorità che rilascia questa speciale patente di guida è tutt’altro discorso.
Come altro discorso è il fatto che gli stipendi di questi intellettuali siano pagati proprio grazie alla produzione assicurata da muratori, agricoltori, commercianti e capitani d’impresa: i settori produttivi a più alta densità di posti di lavoro. Lavoro e lavori, parole magiche.
C’erano una volta politici che dedicavano l’intera vita all’apertura di fabbriche e cantieri, e che combattevano affinché in quei luoghi ci fosse rispetto per i lavoratori. Oggi, invece, ci sono politici e commentatori politici che dall’alto di uno stipendio fisso reclamano il rispetto delle condizioni di lavoro e nel frattempo “lavorano”, seduti a scrivere o in piedi a manifestare, per chiudere fabbriche e cantieri. È questo il punto su cui ci siamo persi e che qualche tempo fa ha fatto domandare, a un allibito Luciano Canfora, ma che razza di sinistra è quella che chiude le fabbriche e i cantieri? L’idea che la politica sia il tutto di ogni parte della vita e che dalla politica e dal ruolo degli intellettuali veri o presunti discenda il bene è un’idea sbagliata. È dimostrato infatti che la politica non contiene tutta la vita e tutto il sentimento, e che fuori dalla politica c’è la vita delle persone, quelle normali, la maggioranza, che pensano ancora alla libertà e ai mezzi per liberarsi dal bisogno, dalla sofferenza e dal male; da una serie di problemi molto pratici, compreso quello della casa, che l’approccio totalitarista alla politica può solo mortificare.

Il Piano Casa non risolve i problemi del mondo, ovviamente, ma aiuta a ricordare con Bukowski che “s’incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta. Tutto il resto è magniloquenza romantica o politica”. Lo scrisse nelle sue Storie di ordinaria follia. Appunto.

Intervento pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 15 novembre 2021, pagina 1

La diagnosi precoce e le lungaggini della burocrazia

di Amati Fabiano

L’obiettivo sulla carta c’è: diagnosi precoce e accesso ai farmaci innovativi, supportati dagli straordinari passi in avanti della genetica e della genomica. Facile a dirsi e difficile a farsi.
Dicono che il Mezzogiorno sia in ritardo. È così, ma il resto del Paese non se la passa poi meglio, avvolto in procedure attorcigliate intorno a gruppi di studio e conferenze, tavoli e tavolini, organizzati per non perdersi nemmeno un po’ dei poteri nuovi. Ed è così che procedure semplici e alla portata di tutti stentano a diventare prassi, immolando nelle lungaggini tante vite e tante speranze.
Andiamo per esempi, la scienza della praticità.

Primo: screening per l’atrofia muscolare spinale (Sma). Una goccia di sangue prelevata dal piedino di tutti i neonati, per sapere senza dubbi se quel mostro, che fa spegnere i motoneuroni e progressivamente tutti i movimenti, ha trovato alloggio. Casi rari ma ci sono, e portano dolore e sofferenza. C’è una legge dello Stato che sin dal 2018 impone lo screening obbligatorio e consente così di approfittare, in fase presintomatica, delle più innovative terapie, comprese quelle genetiche. Purtroppo l’attività non parte, perché da quasi tre anni si attende l’aggiornamento dell’elenco degli screening da parte dal ministero della Salute. Una sequenza raccapricciante di riunioni e tavoli, come se l’Amministrazione fosse una gigantesca falegnameria; e se per caso ci si dimentica d’invitare un qualsiasi portatore d’interessi bisogna ricominciare daccapo. E intanto i bimbi malati nascono e si ritarda nella terapia, aprendo pure conflitti tra politici accordati con la prova scientifica e scienziati arrivati in politica per dimenticarsi la scienza. Ma qualche spiraglio c’è, all’italiana, un po’ per aggiramento e un po’ per sopravvivenza. Progetti pilota, come hanno fatto in Lazio e Toscana, come espediente per dire “lo faccio ma solo come esperimento”; oppure fregandosene del galateo leguleio e burocratico, come accaduto in Puglia, e facendolo partire con legge e per tutti i neonati – altro che progetto pilota! – e con il Ministero che per pudore ha deciso di soprassedere da un’impugnativa dinanzi alla Consulta che sarebbe sembrata una commedia processuale: convenire cioè in giudizio una Regione perché osa fare prima ciò che il Ministero tarda a disporre per tutti. Dunque, Puglia per tutti i neonati e Lazio e Toscana come esperimento fanno lo screening, e gli altri neonati italiani? Niente. Una differenza di trattamento fuori da ogni grazia.

E avanti con gli esempi. Sequenziamento dell’esoma. Si tratta di una tecnica con cui dall’1 per cento del Dna si possono diagnosticare l’85 per cento delle malattie rare. Una meraviglia di predittività, con tecnologie che migliorano giorno dopo giorno, in grado di affinare la profilassi, calibrare le cure ed eventualmente sottrarsi al rischio. Escludiamo gli esiti di mera predittività del test, cioè conoscere in anticipo il rischio di ammalarsi per poi asportare gli organi obiettivo (per intenderci, il caso di Angelina Jolie), e i casi di turbamento etico per la conoscenza di una diagnosi potenzialmente infausta e però priva di protocolli terapeutici. Mantenendoci nella gestione ordinaria del test, in Italia non esiste in termini strutturali e a carico del servizio sanitario nazionale l’utilizzo della tecnica del sequenziamento, con puntualizzazione dei laboratori di genomica di riferimento e protocolli definiti. Tutto è lasciato alla buona volontà dei genetisti, i quali sono costretti a ricorrere a decine di escamotage pur di assicurare la prestazione. Nei nuovi come nei vecchi decreti sui Livelli essenziali di assistenza (Lea), ossia la “tavola” burocratica, meno accordata con i progressi della ricerca scientifica, l’allestimento avviene a buccia di cipolla. Un primo strato è la legge: dopo averla approvata sembra cosa fatta ma non è così.

Il secondo strato è il decreto sui LEA con l’elenco dettagliato e illeggibile – per volume – di ciò che si può fare, ma non basta ancora. II terzo strato è la decisione sulle tariffe di ogni singola prestazione annoverata nell’onnipresente libro Lea, quale condizione per attivare la prestazione e quale sub condizione per eseguire la legge. È un gioco? Si. Un gioco fatto di perdite di tempo con la giustificazione della complessità e della prudenza, che ormai sembrano gli antagonisti di quella particolare condizione umana che invece andrebbe affrontata giocando d’anticipo sui tempi: la malattia. In Puglia è stata approvata una legge che mette ordine e definisce la tecnica del sequenziamento dell’esoma. Prima e unica regione italiana. I tecnici del Ministero segnalano però che la prestazione non è prevista nei Lea, sempre loro, e altre obiezioni marginali e susseguenti. II Consiglio regionale ribatte che le prestazioni sono nei Lea del 2017, indicando pure i codici. I tecnici del Ministero rilanciano, allora, con la notizia che i Lea del 2017 non sono ancora efficaci, perché manca la definizione delle tariffe. Il Consiglio regionale pronto rintuzza, indicando che anche nei Lea precedenti, quelli del 1996, la tecnica è prevista. Risultato del tram tram? L’impugnazione dinanzi alla Consulta è confermata dal Governo ma non più sulla violazione dei Lea ma su altri profili marginali, preoccupandosi però di segnalare che il ricorso rappresenta un moto di equità, una sorta di misticismo fatto di glorioso svuotamento di sé per far posto all’Altro, così da evitare che i cittadini pugliesi abbiano prestazioni maggiori rispetto a quelli delle altre regioni.

L’equità, una parola ingannevole in questo contesto. Non sarebbe più equo, fuori dai moti mistici, fare in modo che tutte le regioni assicurino le stesse prestazioni piuttosto che rallentare le regioni con maggiore buona volontà? Risposta scontata. Già scriverla sembra un oltraggio. Ricapitoliamo. C’è una regione, la Puglia, che prova ad assicurare a larga scala, nell’ambito del sistema sanitario, una tecnica diagnostica di grande innovazione. Lo Stato crea intralci e i genetisti continuano a effettuare per moto spontaneo meritorio e in modo disordinato le prestazioni. Nel frattempo, le Regioni rimborsano tutte le prestazioni, sulla base dei Lea del 1996, e in attesa di avviarsi verso l’elenco più puntuale contenuto nei Lea del 2017. Ma c’è un però – teniamoci forte! -: quest’ultima previsione del 2017 consente di sequenziare solo sino a 47 geni su un pannello clinico complessivo e utile di circa 4mila. Si pensi che è di 63 geni, cioè molto di più dei 47 massimi autorizzati nei Lea, il pannello da sequenziare per la forma più ordinaria di retinite pigmentosa. E allora che succede? Semplice, il genetista spezzetta le prescrizioni, chessò una da 33 e l’altra da 30. Totale 63, ma la prescrizione è corretta perché ognuna è contenuta nel numero “magico” di 47. Ce n’è ancora? Certo.
Terzo esempio.

Le donne ammalate di carcinoma mammario, tumore molto diffuso, possono essere aiutate a evitare la chemio qualora il test genetico sul tessuto rimosso dia esito incerto. Questo test quindi (in commercio da diversi anni e purtroppo sino a qualche tempo fa non utilizzato nel servizio sanitario italiano) esclude dalla chemioterapia adiuvante le donne che da questo trattamento ne potrebbero ricevere più danni che benefici. L’Italia decide di colmare il ritardo grazie al Covid, perché – si ragiona dalle parti del Ministero – conoscere con sicurezza i casi che hanno bisogno di chemio e quelli che non ne hanno bisogno aiuta a ridurre gli accessi negli ospedali e i rischi di contagio. Insomma, questo test genetico arriva, finalmente, non tanto per colmare un ritardo ma come misura per ridurre gli assembramenti ospedalieri. In un modo o nell’altro, comunque, grazie a Dio. E allora viene adottato a maggio scorso un decreto ministeriale, concedendo alle Regioni due mesi di tempo per adeguarsi e partecipare al riparto delle risorse messe a disposizione. A settembre, probabilmente invidiose della lemma ministeriale, cinque regioni (Piemonte, Veneto, Molise, Puglia e Calabria) non avevano ancora provveduto ad accogliere la già tardiva sollecitazione. La Puglia – va precisato – nel frattempo ha provveduto; speriamo che anche le altre quattro abbiano fatto altrettanto. Per non farci mancare nulla, anticipiamo il prossimo probabile intoppo ma solo al fine di non intoppare. Alcuni studi avanzati concludono sull’utilità del test genetico da eseguire sulle pazienti affette da carcinoma mammario anche in fase pre-operatoria per valutare nel complesso tutto il percorso terapeutico e non solo la scelta chemioterapica. Senza addentrarci nei dettagli scientifici, si preannuncia dunque la necessità di aggiungere il test tra gli esami di prammatica nel percorso diagnostico e a carico del servizio sanitario. Non sarebbe il caso di farci trovare pronti? Non possiamo sperare ogni volta in una pandemia per fare passi in avanti. Può bastare?
Facciamo un altro esempio.

Andare a più di tre può emanciparci dall’anedottica alla statistica. E quattro sia. Brca1 e Brca2. E non è la sigla di un volo da Bari a Cagliari. Queste due sigle significano “Gene del cancro al seno”. Si tratta in sostanza di test genetici in grado di dirci se la maledizione di un cancro al seno è stata la conseguenza di un colpo di sfiga oppure un “regalo” genetico degli avi. La conseguenza di questa notizia ha un duplice valore nel processo di risparmio di vite umane: sia per la paziente interessata (nella prospettiva di una probabile recidiva) che per i suoi parenti più o meno stretti. Per la paziente il test è a carico del servizio sanitario – almeno questo per compensare tanta “fortuna” – ma non è previsto, sia pur con quota di compartecipazione alla spesa, per i suoi parenti perché quei test non sono autorizzati come screening generalizzato dal solito elenco Lea. E qui le valutazioni sono due. Una, l’opportunità di considerarlo, nel “librone” Lea e al più presto, quale screening generalizzato in grado di risparmiare vite umane e risorse economiche. Due, non si può accettare l’idea che possa essere considerato screening invece che una procedura di diagnosi avanzata, la sottoposizione al test di persone nella cui catena di parentela è stata riscontrata una mutazione genetica, idonea – in termini di probabilità – a far scoppiare il caso di malattia. In altri termini: c’è una persona ammalata che attraverso i test Brca1 e Brca2 riscontra la propria predisposizione genetica. Ciò dovrebbe suggerire l’estensione a carico del servizio sanitario e con il regime della compartecipazione alla spesa, del test ai familiari di primo grado (genitori, fratelli, figli), così da verificare l’ulteriore predisposizione genetica e quindi una necessaria e più approfondita attività periodica di sorveglianza, come lo può essere la più dettagliata risonanza magnetica al posto dell’ordinaria mammografia. Ma purtroppo non si può fare perché, come al solito, non è previsto nei Lea. Un non senso che ci costa in termini di vite umane e assistenza in misura di molto maggiore, come conseguenza di diagnosi tardiva o non tempestiva. E ora basta con gli esempi.

La genetica e la genomica sono scienze veloci e introducono nuove tecnologie nel tempo che la burocrazia riesce a digerire quelle precedenti e diventate già vecchie. Questo è il problema. ll plotone dell’innovazione non può marciare al passo di uno Stato che ha il gusto sadico di svolgere la parte del soldato più lento. E a questo punto si spera che a nessuno venga in mente di organizzare un tavolo tecnico per analizzare le lentezze con cui combattere la lentezza. La malattia burocratica dell’Italia in sanità è certamente grave ma per essere curata servono solo vecchie e sempre efficaci medicine: lavoro e decisione.

Intervento pubblicato su Quotidiano del Sud Bari Bat Murge di domenica 14 novembre 2021, pagina 6

Le (anti)tesi sull’ambiente

 

di Fabiano Amati

È inutile girarci attorno. I «no» alle fonti di energia rinnovabili appartengono alla lotta politica e diversamente da quanto si crede non hanno parentela con la cura del Creato. In fondo era stato Chico Mendes a confessarlo: «L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio».

Una precisazione i cui echi condiscono sia le comunicazioni e manifestazioni di protesta che il rifiuto ad attribuire neutralità partitica al programma ambientalista. E questo il contesto entro cul va letta la contraddizione italiana tra centinaia di pratiche per rinnovabili in attesa di autorizzazione e intere sessioni di incontri tra i “grandi” della Terra sull’emergenza climatica, punto centrale delle politiche green, e gli impegni a incentivare le rinnovabili. E magari bastassero da sole al raggiungimento dell’obiettivo. E pure in Puglia si sguazza in questa contraddizione.

A una Milena Gabanelli incuriosita dalle lentezze e dai paradossi pugliesi, il presidente Emiliano rilanciava non sui fatti obiettivi, ossia gli ostacoli normativi e amministrativi purtroppo non ancora rimossi, ma con proclami su richieste di compensazioni o risarcimenti per poter dare il via libera agli investimenti. Una frase forse detta per diluire e dilatare l’imponenza del problema, ma si spera non rivolta a ripetere l’esperienza del gasdotto: Tap e Snam stanno ancora attendendo che qualcuno si degni di accettare, proprio così, le somme promesse.

Andiamo ai numeri. In Puglia ci sono circa 400 pratiche bloccate per fotovoltaico, eolico e biomasse, per 15 potenziali miliardi di watt complessivi, e all’orizzonte sta emergendo la nuova ostilità sui parchi eolici offshore. Le richieste sono tutte candidate alla bocciatura, perché una norma del Piano paesaggistico può ben essere interpretata per respingerle, addirittura nei casi di insediamento in aree inquinate, come purtroppo è accaduto. Si, esatto. In un’area inquinata, dove anche la coltivazione è vietata, è stata respinta una domanda per fotovoltaico con la motivazione di assicurare – nientemeno – la necessità di tutela, valorizzazione e recupero dei valori paesaggistici.

La norma del Piano paesaggistico che si adatta ai pareri contrari seriali è l’articolo 37: un passaporto per ogni diniego discrezionale e in contrasto con i principi di legalità formale. In questo senso, anche l’orientamento del ministero della Cultura non sembra per nulla incline a modificare l’articolo 37 o altre norme ostative di quel Piano, anche se la Regione non ha in verità mai avanzato una richiesta formale. Ne deriva, allora, che tutta la narrazione e le buone intenzioni sul contenimento delle emissioni di CO2 sono in netto contrasto con la pratica politica e burocratica quotidiana.

E, come se non bastasse, anche sulle alternative localizzative in ambito offshore cominciano a mettersi in evidenza forti resistenze senza che la Regione Puglia abbia ancora espresso un’opinione chiara. Gli ingredienti sono dunque tutti in pentola per mettere in cottura il fallimento del più imponente programma ambientale della storia, lasciando spazio a pratiche inquinanti e insalubri. E il tutto per la propensione politica di gruppi minoritari ma rumorosi, motivati dall’ideologia nel contrastare un mondo in cui a dar fastidio pare sia l’uomo e la sua aspirazione inarrestabile al progresso e alla libertà. L’ambientalismo diventa giardinaggio non se gli manca la lotta di classe, ma quando scarseggiano la ragione e la tecnologia. Le due parole chiave della realtà.

Intervento pubblicato su Corriere del Mezzogiorno Puglia di domenica 7 novembre 2021, pagina 1
I dibattiti del Corriere –

Noi, il partito delle tessere

di Francesco Strippoli

La crisi nel Pd barese è risolta. Domenico De Santis, vice capo di gabinetto in Regione, è il candidato unico e dunque prossimo nuovo segretario provinciale. Oggi presenta il programma e i primi nomi della squadra. il dissidio tra Michele Emiliano, che sponsorizza De Santis, e il sindaco Antonio Decaro, si è ricomposto negli ultimi giorni. Per questo il prossimo segretario parla di «candidatura unitaria». Va detto, in effetti, che Decaro non aveva sollevato dubbi sul suo nome ma eccepito sul percorso. De Santis era stato indicato dai maggiorenti del Pd vicini a Emiliano senza consultare il sindaco. Giovedì e ieri si s ono incontrate le due parti: lo stesso De Santis con l’uscente Ubaldo Pagano, per la parte Emiliano; e il sindaco di Polignano, Domenico Vitto, con il consigliere regionale Francesco Paolicelli, per il gruppo Decaro. La ritrovata intesa a Bari non risolve il grave stato di tensione interna nel Pd. Cinque consiglieri regionali (Amati, Campo, Mazzarano, Mennea e Pentassuglia) hanno scritto a Enrico Letta. Paventano un congresso che si limiti a «una mera operazione burocratica», facendo restare nel Pd una sola «attività prevalente»: quella del «mantenimento dei rapporti di forza per conservare, con la complicità di leggi elettorali che limitano le scelte di preferenza dei cittadini, assetti e pur legittime aspirazioni». Insomma: si resta fedeli al leader di turno per avere comodi posti nelle liste bloccate ed essere eletti in Parlamento.
⁃ Lei, consigliere Amati, cosa pensa della conferma di Lacarra? «Quello che pensano tutti: non lo voleva nessuno, neppure Decaro. Però viene confermato, grazie a Emiliano, perché è l’unico che consente al presidente di dire “il Pd sono io”, nonostante non sia un iscritto al partito».
⁃ Che dovrebbe fare, censurarlo? «Gli dovrebbe dire: il Pd è fatto di iscritti che si impegnano a sostenerti, ma siccome non sei iscritto, ti prego di non usare la carica dl governatore per condizionare il dibattito interno. E se vuoi intervenire, fai in modo che il Pd non sia bloccato dalla logica dell’appartenenza e della fedeltà».
⁃ Per questo avete scritto a Letta evocando il tema dei posti in lista? «La politica serve a stare nelle istituzioni, non facciamo gli ipocriti. Ma non è questo il punto. Scrivere una lettera significa chiedere regole di libertà e riguarda i 5 firmatari come chiunque. Non sono le lettere a bloccare il partito: il Pd è paralizzato dalle liste bloccate. Per essere candidati al parlamento si viene misurati sulla fedeltà,non sul merito elettorale».
⁃ Lei dice che Lacarra non lo voleva nessuno. Perché non è venuto fuori un candidato alternativo? «È rischioso il candidato alternativo: potrebbe arrivare uno che dica “ora dovete parlare con me e non potete decidere tutto voi”».
⁃ Perché non si è candidato lei? «Perché non ci sono più le primarie aperte. A luglio, nell’assemblea che doveva indire il congresso, chiesi le primarie aperte e rimasi solo. Perché avevano capito che quel metodo avrebbe reso contendibile il partito. Hanno lasciato un altro sistema, quello delle tessere. E noi siamo tornati il partito delle tessere».
⁃ Che pensa del dissidio tra Emiliano e Decaro su Bari? «È l’esito di uno stato di tensione sotterranea, serve a guardarsi reciprocamente. Emiliano vede come il fumo negli occhi che Decaro possa assumere una leadership nazionale, il ruolo cui aspira lui. Emiliano può tollerare che Decaro sia il suo “dopo” in Regione, ma non il suo “prima” in Italia. Ma c’è un ma».
⁃ Quale? «Tutta questa discussione è il nulla della politica. Soprattutto non è funzionale a quella che io chiamo la condizione umana. Non si parla di liste d’attesa, di rifiuti, di ospedali, di dove localizzare la fabbrica di Intel sperando che arrivi in Puglia».
⁃ Qualcuno dice che lei si oppone alla giunta. «No, non sono all’opposizione. Sono al governo perché con le mie proposte faccio fare cose che diversamente non si farebbero. E io penso che occorra sostenere la giunta Emiliano, avendo il coraggio di obiettare quando è il caso».

Intervista pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno Puglia di sabato 30 ottobre 2021, pagina 4

Nella terra degli ulivi la Xylella diventa un caso politicoo

di Marco Grieco

Lungo la strada statale SS7 che porta a Brindisi sembra di attraversare le stagioni in una manciata di chilometri, le chiome verdi degli ulivi che diventano ruggine e poi svaniscono, mentre il cielo plumbeo grava sugli alberi monchi e privi di vita. La causa di tutto questo ha un nome latino, come tutti i cataclismi che battezza la scienza: Xylella fastidiosa, un batterio che, per poter vivere, ha condannato a morte l’olivicoltura salentina. Secondo Confagricoltura, dal 2013 la Xylella ha colpito 150mila ettari di uliveti tra Lecce, Brindisi e Taranto, creando una voragine nell’occupazione: almeno 33mila posti di lavoro sono andati in fumo e 93 oleifici hanno chiuso i battenti in tre anni, con un danno complessivo che supera il miliardo e mezzo di euro. Le cifre implacabili lasciano il posto al silenzio nella piana messapica, dove la raccolta delle olive è per tradizione una liturgia familiare.

Oggi bisogna risalire la statale Jonica alla volta di Taranto per annusare l’aria pregna della sansa della macinatura: «Avevo settecento piante di ulivi, poi le ho vendute», spiega Antonio De Michele, pastore di San Pietro Vernotico, contadino fino al 2015: «Adesso il terreno non dà più niente», ammette con quel misto di saggezza e disillusione che possiede chi sceglie le stagioni come maestre di vita. Fra gli agricoltori, di Xylella non si parla. “Idda” la chiamano, “lei”, come se un fonema schioccato nel palato fosse sufficiente a portare in vita gli ulivi disseccati, simile al suono della pizzica che esorcizzava le tarantate nel Dopoguerra. Eppure, i dubbi sono stati fugati nel 2013 nei laboratori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) dall’equipe del ricercatore Donato Boscia: «Xylella fastidiosa, sottospecie pauca, genotipo ST53, è una variante che fino a quel momento non era stata mai segnalata negli ulivi, anche se già nota negli agrumeti di San José, in Costa Rica». Il microscopico batterio è un filo sottile che collega il Salento alla Costa Rica, da cui nel 2013 l’Europa ha importato 40 milioni di piante ornamentali all’anno, di cui 3mila piante di caffè a scopo ornamentale: «È in queste che il genotipo è stato segnalato per la prima volta», spiega Boscia.

Il resto lo hanno fatto le condizioni climatiche del golfo di Gallipoli, simili a quelle nella baia di Los Angeles, dove sul finire dell’Ottocento la Xylella decimò le viti: «Per di più, l’insetto vettore, noto col nome di sputacchina, è abbondante nel basso Salento, e questo spiega perché la fitopatia si sia rivelata così aggressiva». Il ricercatore chiarisce perché, nelle aree infette, l’unica misura prevista sia l’eradicazione: «Il batterio intacca i vasi delle piante che conducono la linfa grezza dalle radici alle foglie. Per questo, si osserva la cima secca, ma tutto l’albero è irrimediabilmente infetto». Ma le prove scientifiche non bastano in quella che l’antropologo Ernesto De Martino chiamò “la terra del rimorso”: dal 2013 alcune associazioni hanno ostacolato la rimozione degli ulivi malati, salendo sugli alberi e bloccando le strade ferrate. Persino il mensile della San Paolo, Jesus, nel 2019 lasciava spazio ai dubbi, parlando “land grabbing” ed eclissando il parere degli scienziati con le intuizioni dei missionari comboniani, di preti ecologisti e oppositori: «I contestatori hanno attaccato la voce della scienza, senza offrire dimostrazione a riprova di ciò che dicevano, e con una parte ampia della classe politica pronta ad assecondarli per paura. Il risultato? Uno scempio da portare sulla coscienza», spiega Fabiano Amati, consigliere regionale del Partito democratico e presidente della Commissione Bilancio, da sempre aspro critico del fronte negazionista. Così la Xyella è diventata arena di scontri politici. Ancora oggi, sui muri di Lecce si leggono le ingiurie scritte con lo spray a Giuseppe Silletti, il comandante regionale del Corpo forestale pugliese che nel 2015 fu nominato Commissario delegato dal governo Renzi per fronteggiare l’epidemia: «Non ho mai detto di poterla fermare, ma ho fatto del mio meglio, per giunta a titolo gratuito», confessa. Silletti ha eseguito quanto prescritto dalla decisione di esecuzione Ue 2015/789, cioè l’eradicazione degli alberi infetti per rallentare l’epidemia il più possibile con la creazione di due zone: l’area di contenimento, cioè il fronte avanzato dell’epidemia, e l’area cuscinetto, con misure più blande per proteggere i campi adiacenti.

Ma davanti ad ulivi secolari, sradicati con la ruspa, agricoltori e istituzioni locali hanno rifiutato la scienza, lamentando una distruzione identitaria. Sono tanti i contadini che ancora oggi sentono di dover lottare contro presunti poteri forti, inconsapevoli che, con la Xylella, per salvare un albero se ne condannano mille. Gianni Caretto, agricoltore brindisino, mostra il suo uliveto secco ed esclama perplesso: «Non mi spiego come sia possibile, me li hanno avvelenati». Seguendo la dorsale dei muretti a secco che rattoppano i piccoli e grandi appezzamenti, il paesaggio stretto tra Squinzano e Cellino San Marco è spettrale. Persino nelle Tenute di Al Bano Carrisi, gli ulivi che decorano le piazze del suo hotel-borgo cominciano a seccare. Al Bano rientra fra i 47 “esperti” riuniti dal governatore della Puglia, Michele Emiliano: un carosello di nomi che affianca personalità come Renzo Arbore e Lino Banfi a personaggi discussi, come l’agroecologo Gianluigi Cesari, sostenitore della controversa agricoltura biodinamica, e Alessandra Miccoli, cultore della materia in Geografia umana all’università Unisalento, un tempo schierata con i contestatori del Popolo degli ulivi. Emiliano ha, così, messo in piedi un gruppo parallelo al comitato tecnico-scientifico creato dall’assessore all’Agricoltura in quota Pd, Donato Pentassuglia: «Il presidente può anche avvalersi di collaboratori, ma ha votato con tutta la giunta il mio piano di azione. Sa che non farò un millimetro indietro rispetto al lavoro che stiamo facendo con il Comitato tecnico-scientifico», rassicura l’assessore.

Come Pentassuglia, anche Amati non nasconde le sue perplessità: «Come si può pensare di mettere assieme gli scienziati nominati da Pentassuglia, cioè quelli ingiustamente indagati in un’indagine penale, e i loro contestatori scelti da Emiliano? È come pretendere di far convivere quelli che sostengono che a girare è il sole e quelli che è la terra». Nel Pd pugliese, le giravolte della politica sono interpretate come opportunismo. Nel 2015, il grillino Cristian Casili definì “follia” l’abbattimento degli ulivi secolari: oggi è vice presidente del Consiglio regionale della Puglia nella maggioranza di Emiliano. C’è chi siede a Palazzo Madama, come il senatore Lello Ciampolillo – passato dai 5 Stelle al Gruppo Misto -, che nel 2018 elesse un ulivo infetto a residenza parlamentare. Amati parla di psicopolitica: «In Puglia il Pd vive una soggezione psicologica nei confronti di Emiliano al punto che pure le obiezioni più ovvie risultano lesa maestà. I contestatori della Xylella hanno trovato una parte della classe dirigente pronta a sostenerli, perché nel complottiamo s’individua il sostituto delle narrazioni politiche sconfitte dalla storia che li ha lasciati orfani».

Silletti, candidato nel 2020 al Consiglio regionale per Fratelli d’Italia, ricorda i buoni rapporti con i democratici, eccetto Emiliano: «Avrebbe dovuto sostenermi in quanto nominato dal governo, invece parlava con i negazionisti. Quando nel 2015 convocai i sindaci delle zone colpite nel mio ufficio, lui si giustificava dicendo di non potermi fermare. Ne parlai con l’allora ministro Maurizio Martina: mi disse che Emiliano sbagliava nelle sue esternazioni». Nel 2015 la scienza fu confutata anche nelle aule di giustizia. Con un decreto, la Procura di Lecce dispose il sequestro degli alberi da eradicare, iscrivendo sul registro degli indagati i ricercatori del Cnr e lo stesso Silletti. Emiliano, magistrato in aspettativa, salutò il provvedimento come una «liberazione». Per Silletti, al contrario, fu un fulmine a ciel sereno: «Ero stato nominato dal governo per combattere un’epidemia e ho dovuto combattere chi la negava.

Oggi è tutto archiviato, ma non mi capacito che la Procura abbia dato ascolto a chi ci accusava ingiustamente». A distanza di otto anni, nelle campagne si continua a parlare di elicotteri carichi di veleni e di piani per la distruzione dell’agricoltura locale. Tocca ancora alla scienza smentire dichiarazioni come quelle del governatore che, rispondendo stizzito al direttore di National Geographic Italia, Marco Cattaneo, che lamentava la desertificazione del Tavoliere, ha dichiarato che la Xylella è sotto controllo, isolata nella provincia di Brindisi: «Oggi la fascia cuscinetto è ad Alberobello e Monopoli, in provincia di Bari», chiarisce, invece, Boscia. È la battaglia della scienza contro le narrazioni mitiche o politiche, che sono state in grado di fare del simbolo della pace per eccellenza il seme della discordia.

Espresso di domenica 24 ottobre 2021, pagina 86

xylella puglia amati

«Basta con il servilismo Brindisi sappia scuotersi»

di Martucci Oronzo

«Avere un incarico in giunta per rappresentare al meglio gli interessi del territorio è importante, ma non bisogna piangere, tanto meno piangersi addosso, piuttosto ragionare in questi termini: non ho un settore di cui occuparmi? E allora mi occupo di tutti i settori»: Fabiano Amati, consigliere regionale eletto con il Pd in provincia di Brindisi, presidente della Commissione Bilancio, risponde così a chi gli chiede se un assessore regionale espressione della provincia di Brindisi potrebbe ottenere maggiori risultati per il territorio di provenienza. La provincia di Brindisi, tra l’altro, non ha mai avuto rappresentanti in giunta dal 2015, anno della prima elezione di Michele Emiliano alla presidenza, forse anche a causa della scarsa sintonia che esiste tra Amati ed Emiliano.

Presidente Amati, le rappresentanze politiche, istituzionali e sociali del territorio brindisino non mostrano grande determinazione nel rivendicare una presenza in giunta.
«Mettiamola così: il tema della rappresentanza del territorio è infondato se quella rappresentanza serve solo a garantire un posizionamento politico; è molto fondato se significa che chi non è in sintonia con il presidente Emiliano non può e non deve far nulla. Penso che la politica non debba essere condizionata da antipatie e simpatie. Onestamente, ho fatto più cose disturbando di quante ne avrei potute fare se fossi stato nel governo, mediando. Ma…».

Ma…?
«Qui non è in discussione il mio lavoro politico, si tratta di permettere al territorio di esprimere al meglio tutte le sue potenzialità. Ecco perché Brindisi si deve scuotere da questa condizione servile agli agglomerati politici precostituiti di destra, sinistra e centro, con l’obiettivo di turbare e anche disturbare chi trova giovamento da questa condizione servile».

Cosa ha ottenuto e realizzato da consigliere, disturbando?
«Beh, l’oncoematologia presso l’ospedale Perrino è stata attivata su mia iniziativa, così come su mia iniziativa è nato l’ospedale di comunità a San Pancrazio e sono in fase di realizzazione gli ospedali di comunità presso il “Di Summa” di Brindisi e a Latiano. E ancora: ho combattuto per portare acqua e fogna in alcuni quartieri periferici di Brindisi e combatto quotidianamente accese battaglie, creando incomprensioni, sullo sviluppo ambientalista di Brindisi, come nel caso del deposito Edison nel porto. Provo anche a far ottenere a Brindisi ciò che le è dovuto per il passaggio del gasdotto di Tap. Questi sono atti di governo senza stare al governo».

La politica delle cose.
«Sì, senza soggezione verso alcuno e in modo determinato. Voglio ricordare che chi viene assoggettato o si fa assoggettare rischia di non avere nulla. Chi si fa assoggettare rende il territorio sguarnito di voci e persone, e non deve lamentarsi dell’ingratitudine umana. Non sono un radical chic, nel lavoro politico mi bagno quotidianamente con le lacrime delle persone, non mi trastullo».

I suoi colleghi si bagnano con le lacrime delle persone, cioè con i loro problemi quotidiani?
«Io guardo a me, spero che lo facciano. Bisogna evitare di pensare che la politica sia movimento senza spostamento».

Tra qualche settimana la delegazione brindisina del Pd in Consiglio regionale si arricchirà con l’arrivo dell’imprenditore Carmelo Grassi. Quale potrà essere il suo contributo per rappresentare gli interessi del territorio?
«Conosco e stimo Carmelo Grassi, ma non l’ho mai visto all’opera. Spero che io possa dare una mano a lui e lui a me per superare i “nì” inconcludenti che sono inutili e non portano vantaggi ai cittadini che ci hanno delegati a rappresentarli. La carriera politica deve dipendere dalla capacità di rappresentare e cogliere ogni aspetto della condizione umana, cioè esigenze, bisogni, problemi. Non certo dalla sudditanza verso il capo. La sudditanza non può che provocare, lo ripeto, movimenti senza spostamenti, cioè iniziative inutili».

Nuovo Quotidiano di Puglia edizione di Brindisi di sabato 23 ottobre 2021, pagina 11

La sinistra perdente nelle periferie

Si dice: la sinistra non sfonda nelle periferie e tra le persone in stato di disagio. Vero, fuorché alle Comunali e grazie al Pd. Perché tutto questo? L’indagine sociologica ci dice ciò che si nota pure empiricamente. Gli argomenti della sinistra, ai quali spesso si arrende il Pd, sono quelli delle celebrity: genere, LGBT, piste ciclabili, enogastronomia luxury, ambientalismo politico e politicizzato. Questi argomenti sono lontanissimi dal rappresentare il tutto di un’azione politica accordata con i bisogni delle persone. Le persone normali non hanno i problemi delle celebrità e gradiscono, detto con Francesco De Sanctis, che ci si occupi delle loro lacrime e non che ci si limiti a piangere parlando dei loro problemi.

Le persone normali e quindi pure quelle che vivono nel disagio sanno riconoscere chi si bagna le mani con le cose che lacrimano: le liste d’attesa, la diagnosi precoce sulle malattie, i presidi territoriali d’assistenza e gli ospedali di comunità, le reti idriche, l’edilizia, l’agricoltura convenzionale, il lavoro come strumento di produzione e non come prodotto. Su questi argomenti la sinistra dice qualcosa di risoluto?

No. Resta silente. Quando qualcuno pone tutta la problematicità di questi argomenti, si apre un combattimento, tra contrasti e timidezze. Contro le norme risolute sulle liste d’attesa, magari per compiacere una parte di celebrità delle professioni sanitarie; contro l’innovazione nella diagnostica e negli screening per assicurare la conservazione negli assetti burocratici e di potere costituiti; contro il Piano casa, strumento di risparmio suolo, maggiore legalità e piatti a tavola, per criminalizzare senza prove tutto il comparto edilizio. E ci sarebbe da aggiungere molto altro.

Passiamo alle timidezze. Timidi sui Presidi territoriali d’assistenza e gli ospedali di comunità (ci sono solo in provincia di Brindisi), perché impongono tanto fastidioso lavoro da front office; timidi sui grandi finanziamenti necessari per ampliare le reti idriche e fognarie fuori dal perimetro del servizio idrico integrato, magari impedendo pure il funzionamento dei depuratori; timidi sui programmi d’ampliamento della sfera produttiva, per incomprensibile avversità nei confronti dell’industria; timidi sull’agricoltura di precisione, integrata e convenzionale, e molto veloci sulla più costosa agricoltura biologica e a volte addirittura sulla magie della biodinamica.

E pure sul versante delle timidezze ci sarebbe d’aggiungere molto altro. Come possono dunque votare a sinistra gli abitanti delle periferie e le persone disagiate se pure il Pd si mette a fare la sinistra delle celebrity? Ma alle amministrative ci votano. Certo. Ma non votano la sinistra in quanto compagine radicale, di stampo conservatore e rossa solo di bandiera; votano il Pd, i suoi alleati e la loro classe dirigente locale per la maggiore competenza sull’amministrazione pubblica rispetto alla classe dirigente scelta dalla coalizione avversaria e che, quando si mette all’opera, fa esattamente ciò che serve ai cittadini, soprattutto a quelli delle periferie e del disagio, senza inseguire i metodi visionari (“la visione”), i modelli di sviluppo (“modello di società”), cioè i recinti entro cui spaziano gli argomenti celebri delle celebrità. Una cosa che forse ha avuto a che fare con l’illusione mortifera del socialismo reale, ma che non è mai stato di sinistra.

Se ancora si può dire così.

Articolo originale su Corriere del Mezzogiorno del 21 ottobre 2021