SERVE UN ARGINE ALL’IPOCRISIA SU ARMI E CONFLITTO

Tempo di guerra. Mettiamo un vescovo intento a dare dieci nuovi comandamenti. Ma fm qui, passi. E mettiamo pure un cristiano desideroso d’obbedire a quei comandamenti rivolti a disprezzare la guerra senza provare a mettere ordine nella realtà. Ebbene, quel cristiano ha bisogno di dieci finzioni per farsi paladino di questi comandamenti sull’idolatria della pace.
Prima finzione. Deve impegnarsi a percorrere il sentiero della pace e della benedizione senza mai pronunciare il nome di Caino-Putin.
Seconda finzione. Deve additare l’irragionevolezza della guerra, proiettando il pensiero bellico anche a carico dell’Ucraina che si difende.
Terza finzione. Deve costruire la pace sventolando bandiere nelle piazze pacifiche dei paesi democratici e poi a casa, prima che la minestra si freddi.
Quarta finzione. Deve avere, come colpo in penna, il capro espiatorio di una diplomazia sonnacchiosa incapace di fare ciò che non può: negoziare con i fiori in mano, seduti sulla bocca del cannone che spara.
Quinta finzione. Deve ribaltare la realtà e attribuire l’intento di esportare la democrazia alle nazioni che difendono gli ucraini attaccati, dimenticando che la guerra è invece cominciata con Putin desideroso d’esportare un’ideologia e una dittatura.
Sesta finzione. Deve mettere assieme i pianti per i morti di guerra di tutti i tempi, per evitare di piangerli uno per uno e man mano che muoiono, con il pesante fardello di ricordare i loro nomi e la mano del loro assassino.
Settima finzione. Deve spostare l’attenzione sull’ovvia accoglienza dei profughi e senza distinguo, per distogliere il pensiero dai carnefici da cui fuggono.
Ottava finzione. Deve criminalizzare sia chi si arma per non essere ucciso e chi lo fa per uccidere.
Nona finzione. Deve disporsi all’allusione su facce e aspetti taciuti o oscuri, anche se non conosciuti, per avere la possibilità di sostenere le buone ragioni senza spiegarne il perché.
Decima finzione. Deve saper lanciare il dibattito in cagnara e quindi collegare un conflitto sanguinario finanche con le più varie ed episodiche intemperanze da sociaL
Dieci finzioni per trasformare la pace in un idolo. Dieci regole per un pieno d’ambiguità e per non rispondere alle domande più semplici
È pace o è guerra soccorrere e difendere l’aggredito? È pace o guerra infliggere violenza agli altri? «Fare tutto il possibile per il dialogo» mentre uno degli interlocutori uccide è «amare sinceramente la vita» oppure è doppiezza?
Se i commenti meditati nel libro di Amos potevano essere usati per «trasformare il diritto in veleno» e per schiacciare l’oppresso e il debole, figurarsi quanto velenose possono rivelarsi le addizioni di buone intenzioni sulla pelle della realtà.
La guerra della Russia all’Ucraina si riduce peraltro a una circostanza semplice: un violento e potente esercito si è riversato contro una nazione assai più debole. Che si fa? L’Italia e molti paesi del mondo stanno fornendo armi di difesa e adottando sanzioni economiche. Qual è esattamente la colpa? Lo si dica, senza incertezze. La questione non è cosa fare durante la pace, ovviamente. La questione è cosa fare quando il debole è aggredito e l’aggressore non desiste. Si può amare la pace con il sangue altrui? Fare così non rende la pace il più odioso degli idoli?
Per quanto potrebbe farci piacere, la politica non nasce per soddisfare capricci adolescenziali; non conosco persone razionali dedite a contestare l’amore, la pace o la felicità.
La politica deve affrontare i temi dell’età adulta: quanto costa l’amore, la pace e la felicità? Qual è il prezzo che siamo disposti a pagare? E sarebbe meglio se la decisione potesse essere presa con l’aiuto di voci equilibrate e non equidistanti, come fu per esempio quella del cardinale Clemens August von Galen. II leone di Münster, non dovette riscrivere i comandamenti, gli bastarono quelli dati a Mosè per prendere posizione e mettersi dalla parte di Abele e resistere conto Hitler-Caino. Senza tentennamenti.
La grande Russia che Putin insegue richiama il disegno della grande Germania. Ci fu un momento in cui il programma fu considerato legittimo e si accettò la resa, vantandosi di aver portato «la pace per i nostri tempi», commentò Chamberlain. Non andò così. Quella pace, immaginata con la resa, si rivelò illusoria e ostacolò «la pace per tutti i tempi», come ricordò Kennedy qualche anno dopo.
L’ingerenza umanitaria è stata insegnata al diritto internazionale dalla Chiesa apostolica e romana, durante il pontificato di San Giovanni Paolo II. Chi definisce “pacefondai” i “né di qua né di là” non la fa per dileggio o per eccessi di sapienza, ma per stare su quella scia e per mettere un argine all’ipocrisia senza profezia.

Articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 27 marzo 2022

«Tolo tolo» insegna armi e spese militari aiutano chi soffre

di Fabiano Amati

Le armi agli ucraini e l’aumento delle spese militari, stanno nel film Tolo Tolo di Checco Zalone. Un film sulla disumanità, che sceglie Nichi Vendola per interpretare il narcisismo etico, ossia il bene che si compiace in sé stesso, come avrebbe detto Franco Cassano ne L’umiltà del male. La scena: Zalone prigioniero chiama il giardiniere Vendola per un aiuto nel pagamento del riscatto. Vendola è infastidito dalla telefonata di Checco e «approfitta» per un sermone incomprensibile. Niente, non si capisce niente: «Prova in libico, se si capisce», dice Zalone sconfortato passando la cornetta al suo tiranno. Il prigioniero Checco è come un ucraino in fuga con i suoi bambini e non ha voglia di discernere su cause, effetti e posizioni «né-né»: è un uomo sotto le bombe e chiede immedesimazione, «il bombardato sono io e sono qui», come fece don Tonino a Sarajevo. Gli ucraini chiedono aiuto per non schiantarsi nella curva della morte e non per farsi confortare. Non attendono il sole dell’avvenire promesso da una nuova versione di intellettuali che pensano per come ci vorrebbero e non per come siamo. Questo tipo di intellettuali non ha l’abitudine di confrontarsi con la realtà e il suo carico di dolore e morte. In una parola, la storia per com’è, quella che ha cura di restituire «le lacrime delle cose e non le vostre lacrime», come scrisse Francesco De Sanctis. I drammi della storia non possono essere sostituiti – come ha detto Galli Della Loggia – da un’etica universale approdo di due previsioni fallimentari, la vittoria del proletariato e la capitolazione del globalismo, oggi rilanciate sotto le mentite spoglie dei diritti individuali e dell’ecologismo come surrogato della lotta di classe. Checco Zalone di Tolo Tolo chiede di aiutare gli ucraini in fuga dalla bombe, con le armi per difendersi e come si dovrebbe fare per chi resiste a un aggressore forte e prepotente. Se ci fosse mia figlia sotto le bombe russe, io chiederei di difenderla e di aiutarmi nel farlo.

Sicuro! E come me penso tutti. E sarei contento se la pace arrivasse prima delle armi. Sia chiaro! Non è pacifista chi sostiene la resistenza quando riguarda la storia e guerrafondaio chi la sostiene quando appartiene all’attualità. Non è guerrafondaio chi da qui evita di dire «Kiev, Mariupol, Odessa siamo noi», ma urla «aiuto, è mio figlio il bimbo di Kiev, Mariupol, Odessa». Il sentiero della pace non è un’intrusione nella realtà con parole dette con ammirevole tecnica lirica, valide più per il suono che per il senso. E una pratica immersa nella storia dell’umanità, fatta anche di aiuti militari da preferire a interventi diretti per non toccare il punto del non ritorno. Pure l’aumento della spesa militare non è un favore agli apparati industriali. La spesa militare è deterrenza. È una politica di prevalenza strategica dei paesi democratici, per dissuadere i dittatori come Putin da aggressioni imparentate con guerra, morte e povertà.

Pensieri plebei? Chiediamolo a Dietrich Bonhoeffer, teologo cristiano, oppositore di Hitler, strangolato nel campo di Flossenbürg: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, semi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante». Zalone, cittadino ucraino di Tolo Tolo, chiede di saltare e afferrare il conducente al suo volante, perché non si aiuta chi muore con le parole dei principi che scegliamo per noi. Non possiamo lasciare morire senza aiuti gli ucraini per preservare l’equilibrio che fa comodo a noi, così come non possiamo più farci tro vare militarmente impreparati per il comodo di tutti i Putin che verranno.

Articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 21 marzo 2022

Eolico offshore non solo fotovoltaico. Occorre autorizzare

A parole le rinnovabili non hanno avversari. A parole, però.
Nella realtà, invece, le vogliamo solo sui tetti delle case e perdipiù non sulle facciate; i pannelli fotovoltaici li vogliamo montati in modo orizzontale, perché quelli obliqui, posizionati così per inseguire il sole e produrre di più, deturpano; se si tratta di pale eoliche offshore, beh, che siano installate rigorosamente al largo e non si vedano da riva nemmeno per un centimetro. In ogni caso, sì totale alle rinnovabili, come detto, ma nel rispetto del paesaggio. Già, nel rispetto del paesaggio. Una bella frase di attenzione e tutela con un significato amministrativo inequivoco: nel rispetto del Piano paesaggistico. Giusto. Ovvio. Applausi. Cosa dice allora il Piano paesaggistico a proposito? Dice cose semplici. Vieta la localizzazione di impianti fotovoltaici su suolo agricolo e privilegia l’installazione sui tetti; circa l’eolico, lo tiene lontano dalla costa per quattro chilometri, ma – c’è sempre un ma – i chilometri diventano illimitati se il paesaggio costiero è tutelato. E dove mai c’è un paesaggio costiero non tutelato? Non ce n’è. Appunto. Viva le rinnovabili e viva il Piano paesaggistico che le vieta e che nessuno vuole modificare. Due cose che vengono incredibilmente messe assieme anche se l’una significa il contrario dell’altra. Provare per credere.
Si pensi alla Puglia, la regione del sole, del mare e del vento, ossia il motivo per cui siamo quelli che sulle rinnovabili possono dare di più, detto a coloro che su tutto hanno sempre da rispondere “abbiamo già dato”. In altre parole, se non installi in Puglia le tecnologie che catturano il sole, galleggiano sul mare e si fanno cullare dal vento, dove potresti installarle?
In Puglia, si diceva. Oltre quattrocento pratiche per rinnovabili, di potenza complessiva vicina a 15 miliardi di watt, ferme per divieti paesaggistici. Ma noi, come detto, siamo per le rinnovabili senza se e con tanti ma. O, detto meglio, senza ma e con tanti se.

Siamo d’accordo “solo se”: SE si mettessero sui tetti; SE si allontanassero dalla costa; SE fossero posizionati in orizzontale; SE non riducessero le aree coltivabili. E avanti così. Di SE in SE, ognuno per sé e Dio per tutti.
E se volessimo dare credito ai tanti SE che succederebbe? Proviamo. Facciamo parlare i numeri, entità silenziosi ma fonte d’insegnamenti rumorosi.
Se decidessimo, allora, di installare pannelli sui tetti, facendo pure finta che un posizionamento orizzontale produce quanto quello obliquo, avendo la cura di non prestare attenzione ai particolari, cioè alle giornate assolate e a quelle nuvolose, tra l’inesorabile scansione giorno-notte e tante altre “tecnicaglie” che nascondono il diavolo nei dettagli, ebbene, se decidessimo di installare solo pannelli sui tetti avremmo un risultato inaspettato: non riusciremmo a raggiungere l’obiettivo fissato per il 2026, cioè 70GW di capacità aggiuntiva da rinnovabili.
Davvero? Sì, davvero.

In Italia abbiamo 763,53 chilometri quadrati di edifici residenziali e agricoli, potenzialmente disponibili per il fotovoltaico: attenzione, potenzialmente, avverbio di per sé sempre eccessivo quanto a generosità. Riempire completamente i testi dei quasi 770 chilometri quadrati disponibili in Italia, produrrebbe una potenza di circa 50GW. Meno 20 GW rispetto al grande appuntamento ambientale del 2026.
E tutto questo senza portare in contabilità l’ulteriore capacità necessaria per affacciarsi al mondo dell’idrogeno verde: occorrerebbe raddoppiare l’obiettivo del 2026.
Senza mettere nel conto, ovviamente, gli ulteriori 40GW circa, che servirebbero solo per trasformare a idrogeno l’ILVA di Taranto. È chiaro il conto? Abbiamo bisogno di 70GW per l’obiettivo 2030, 40GW per l’idrogeno verde, 40GW solo per l’ILVA, che fa un totale di 150GW, e proponiamo il fotovoltaico sui tetti per una potenza di circa 50GW. E gli altri 100GW? Fingendo di non sapere che tutta questa potenza risulterebbe utile a soddisfare solo il 45 per cento delle necessità elettriche. Difatti se volessimo davvero affrancarci dal gas e dal petrolio, considerato che anche su rigassificatori o serbatoi GNL ci sono i soliti NO, dovremmo spingere sull’elettrificazione dei consumi e occorrerebbero quindi ancora maggiori capacità, ben superiori ai 150GW e ai 50GW da pannelli su tutti i tetti d’Italia.

E come si fa? Come al solito. Parlando chiaro, con numeri alla mano e smettendola di dirsi favorevoli alle rinnovabili, ma solo sui tetti e nel rispetto del paesaggio, e all’eolico offshore posto sempre altrove. Opzioni, queste, che non possono essere prese sul serio non per cattiveria, ma perché non tornano i conti.
E quando non tornano i conti vincono le parole al vento, che però non fanno girare le pale.

 

Fabiano Amati, articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 marzo 2022

Riflessioni “PACEFONDAI” E DETERRENZA: VISIONI DIVERSE DI UN DISASTRO

di Fabiano AMATI

Potremmo chiamarli “pacefondai”: agiscono per la pace e finiscono – non volendo – per favorire la guerra. Pacifisti con la vita degli altri, sfilando nelle piazze con meticolosa equidistanza. Un metodo inane e con giudizi pronunciati in comfort zone, senza ansietà e percezione diretta del rischio, su scenari ove il rischio cade in testa con bombe a grappoli di fuoco. Inseguire la pace come valore terzista, non considerando però che il rifiuto di calibrare conseguenze diverse tra aggressione e resistenza, schiaccia nella maledizione del neutralismo, troppo per gli uni e troppo poco per gli altri, e indebolisce il negoziato diplomatico pacifico; le pretese inique dell’invasore si ringalluzziscono proprio se circondate da opinioni neutrali. I “pacefondai” mischiano in buona sostanza le colpe dell’aggressore, il dittatore Putin, con il dovere di soccorso nei confronti dell’aggredito; l’irragionevolezza dell’attacco con critiche a ipotetici e mai specificati episodi passati di disimpegno occidentale dal dialogo, sicché le critiche finiscono col resistere a ogni obiezione perché si presentano senza alcuna specificazione di tempo e di luogo, e che se pur fossero vere non sposterebbero i termini della questione. Ossia, non fatti ma zufoli. Si cominci invece col dire che in questa guerra il primo punto d’onore degli offesi (Ucraina, Occidente, Nato) consiste nel non essere gli offensori. E nonostante il clima sia surriscaldato e magari incline a far saltare i nervi alla vista di tanta Umanità uccisa e in fuga, l’Occidente sta evitando di premere il grilletto di una catastrofe bellica, preferendo una deterrenza composta da diplomazia, aiuti al popolo invaso e sanzioni economiche, che pur nella loro durezza non sono idonee a spingersi mai sino al punto di non ritorno. La deterrenza. È questa la parola chiave a fondamento delle strategie militari dei Paesi liberi e demo- cratici. E quando si leggono le riflessioni dei “pacefondai”, stirate dal demone del bene e in “guerra” con il concetto di deterrenza, è nella mancata risposta alla domanda spontanea “e quindi?” che essi suicidano le buone intenzioni. La pace non è un’iniziativa a-politica da dopolavoro. Non è uno scenario disegnato su un’immaginaria finestra sul mondo, ove si possono tratteggiare a piacimento le sagome per raggiungere – altrettanto a piacimento – le conclusioni auspicate. La pace è invece un obiettivo da raggiungere aprendo la finestra sul mondo, affacciandosi e guardando in faccia la realtà, fatta purtroppo di sangue e morte, immedesimandosi nelle pene più visibili e invisibili, sui rischi attuali e in agguato, calcolando con scienza e tecnica tutte le connessioni tra forza militare e tecnologica, obiettivi strategici da sottrarre a ritorsioni (centrali nucleari) e potenziale dissuasivo delle sanzioni economiche. E il tutto per ridurre al massimo la perdita di vite umane e l’esposizione ai rischi, così da ottenere la pace. La pace è quindi una pratica politica e militare, alimentata ogni giorno con la materia prima della deterrenza usata con l’unica risorsa naturale di cui disponiamo: la mente e la sua capacità d’inventare, ra * gionare e negoziare. Più è efficace la forza di deterrenza e più si allontanano le tentazioni d’invasione o più si avvicinano le possibilità di ritiro dell’invasore. E si fa deterrenza anche riducendo i ricatti da dipendenza a monopoli di fonti energetiche, attraverso la costruzione di infrastrutture per guadagnare autonomia d’approvvigionamento e quindi pace. Esatto, pace. Pensare come pure fanno sottovoce i “pacefondai”, animati da tolstoiane buone intenzioni, di non interferire con il passaggio dell’Ucraina al controllo russo, così da acquietare lo spirito conquistatore di Putin e magari bevendosi l’improbabile movente della più ampia zona di confine tra Russia e Nato, significa non aver compreso che nel XXI secolo il territorio non è solo suolo ma cielo e spazio con sempre meno confini e limiti di gittata degli ordigni, con la conseguenza che in realtà Putin non teme un attacco militare della Nato ma – come ha ben detto giorni fa Ernesto Galli della Loggia – il soffio contagioso della libertà, che dall’Ucraina, dalla Moldavia, dalla Georgia possa spingersi sino a Mosca decretando la fine del suo regime. E non si dica che la conseguenza di questo conflitto sia la voracità espansionistica della Nato, perché a quell’organizzazione gli stati aderiscono volontariamente per scopi difensivi e non offensivi e perché sotto l’ombrello della Nato i Paesi hanno la possibilità di «decidere in modo autonomo il proprio destino» come disse Enrico Berlinguer nel 1976 a un incredulo Gianpaolo Pansa che l’intervistava, aggiungendo che la libertà garantita dalla Nato rendeva addirittura più semplice la costruzione del socialismo. La Nato come garanzia di libertà nel 1976 – potenza della storia quando non la si dimentica- figurarsi nel 2022 e di fronte a un gesto spietato compiuto in un tempo abbondantemente posteriore alla cortina di ferro. Anche sul fronte spirituale su cui si è forgiata l’Europa c’è il bisogno di reclamare segnali di chiarezza; una posizione in grado di scegliere tra la vittima Abele e il carnefice Caino e presa ovviamente con cocente preoccupazione, “Mit brennender Sorge”, come fece Pio XI dando l’enciclica scritta dal futuro Pio XII contro I Iitler e il nazismo. Servono più profezie e parole scandalose su giustizia e verità e meno gregarismo con la spiritualità mondana dei tempi, come purtroppo accade anche nella riflessione di molti pastori contemporanei sempre meno inclini a ripercorrere nella fede l’esperienza di Clemens Augustvon Galen, il Leone di Münster. L’invasione dell’Ucraina deve servirci a prendere congedo dall’idea di parità strategica da disarmo, come se fosse per sé stessa portatrice di pace, perché ci può sempre essere un Putin fascista alle porte pronto ad approfittarne. Ad approfittare della nostra libertà declinata nella democrazia e nella pace; quella stessa che nell’ambito delle Nazioni Unite assicura finanche alla Russia di bloccare l’intervento dei caschi blu, incredibilmente reclamato nei cortei come soluzione decisiva nonostante sia obiettivamente impossibile assicurarlo pervia delveto russo. Si pub essere più “pacefondal” di così? E il tutto mentre sul capo degli ucraini in fuga cadono bombe come grappoli di fuoco e ci sentiamo implorare di fare qualcosa.

Pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia del 07/03/2022

L’AMBIENTE E IL LAVORO LE PALE EOLICHE E I TANTI «NO»

di FABIANO AMATI

Se un dolce s’impasta con lo zucchero, come si può far funzionare un impianto per fonti rhinovabili senza sole, mare e vento?Aver raccontato a tutti la virtù pugliese di averli tutti e tre in abbondanza, ha fatto da richiamo non solo per romantici baci al chiar di luna ma anche per occasioni industriali al servizio dell’ambiente, così da combattere con armi più appropriate l’inquinamento e avendo cura di non finire con la pancia vuota ad abbaiare alla luna E veniamo al dunque. D no all’eolico offshore di molti comuni della provincia di Lecce, gridato probabilmente per suggestione, ridurrebbe – se accolto – la risposta anti inquinamento della Puglia, favorendo povertà produttiva e occupazionale per l’intera regione. A cominciare da Brindisi. La costruzione e la gestione di quegli impianti, infatti, porta con sé una realistica ipotesi di consistente utilizzo del Porto di Brindisi, con le intuibili ricadute positive. Per questo sarebbe meglio avvistare l’intero mondo politico regionale, a cominciare da quello brindisino, impegnato nel farsi sentire con chiarezza anche sulla proposta allocata al largo della costa basso-salentina.

La risposta alla carenza di lavoro e alle crisi industriali si trova nell’accoglienza dei nuovi programmi industriali a caratura ambientale e non nel no-a-tutto e nei sussidi da decrescita infelice. Le due iniziative di eolico offshore con profilo strategico nazionale, si accordano con la transizione ecologica e produttiva, puntualizzando un’inedita combinazione d’interessi: ambiente e industria.

A queste iniziative, si contrappongono però suggestioni politiche intente a bloccare il programma con argomenti da “terrore” paesaggistico, ossia un processo di carattere culturale predicato con auspici di valori77awione del paesaggio attraverso l’immobilismo e la musealinazione, cioè le forme più rapide di devastazione: sospettare infatti sull’intervento accorto dell’uomo nel contenere le furie della natura valorizza la spietatezza distruttiva del tempo che passa. Non si può procedere così. Questa è una piega che va stirata al più presto. Le ocra ioni perse del passato portano il conto salato dell’inquinamento e della povertà. La Puglia e la sua classe politica, se interessate ai valori ambientali e produttivi, non possono sedersi in platea a “degustare” inerti le performance di movimenti di protesta che finiscono per ridurre il potenziale dell’importante Porto di Brindisi.

E la classe politica brindisina non può pensare che aver detto SÌ all’impianto offshore al largo di Brindisi esaurisca la gamma dei compiti e dei doveri, come se gli effetti benefici degli impianti fossero tarati sui confini amministrativi comunali o provinciali. L’esperienza di Brindisi e la propensione di favore verso l’iniziativa nello specchio di mare antistante il proprio territorio dovrebbe essere valorizzata in modo esemplare, offrendo elementi di valutazione positiva anche sull’impianto previsto al largo della costa adriatica di Lecce. Occorre insomma spiegare ai sindaci salentini e ai movimenti di protesta che il loro NO si rende complice di decisioni contro l’ambiente, il lavoro e gli interessi del Porto di Brindisi Puglia è la patria europea di Elio, Poseidone e Eolo, le divinità greche della natura che si fa ambiente. Se gli impianti da rinnovabili non si favoriranno in Puglia, consapevoli che rappresentano solo una parte della più complessa strategia di approvvigionamento energetico e di differenziazione delle fonti, il dolce senza zucchero non sarà dietetico, ma amaro.

Articolo pubblicato sulla Gazzetta del Salento del 26-02-2022

 

In corsa per la segreteria regionale? Ci penso solo con primarie aperte – Intervista su Nuovo Quotidiano di Puglia

 di Francesco G. Gioffredi su Nuovo Quotidiano di Puglia del 12 febbraio 2022.


«Candidarmi alla segreteria regionale Pd? Lo valuterei solo in caso di primarie aperte». Fabiano Amati, consigliere regionale Pd e Presidente Commissione Bilancio: il futuro del partito si intreccia con le fibrillazioni in Regione. Al momento, tanto rumore per nulla: critiche, proteste dopo la nomina di Palese, ma il Pd resta all’ombra di Emiliano. 

«Io aspetto la riunione del gruppo consiliare di martedì: lì farò la mia proposta». 

E qual è? L’appoggio esterno? 

Si, per far comprendere a Emiliano che abbiamo un punto di vista diverso dal suo. E vedrò cosa ne pensano i colleghi. Mi aspetto una presa di coscienza su qualsiasi ipotesi in grado di raccogliere lo stato di disagio diffuso».

E le altre proposte sul piatto quali sono?

«Alcune più mitigate: per esempio, la verifica politica. E altre invece all’insegna di “Emiliano ha fatto bene”, posizione che viene espressa con fatica, anche per senso del pudore, perché è ormai chiaro a tutti che la nomina di Palese è un’iniziativa insostenibile». 

La sensazione è che nel Pd in molti stiate sfruttando la vicenda Palese per una manovra di posizionamento. 

«lo no: lavoro per i cittadini della Repubblica. E mi interessa meno il resto. Ed è pensando ai cittadini che ho contestato la nomina di Palese. Nel quadro difficile della sanità, che è frutto anche del Piano voluto da Palese nel 2002, ci sarebbe bisogno di un tecnico esperto di diritto sanitario, contabilità e organizzazione di strutture complesse. Palese non ha queste caratteristiche, è un politico con tanti errori nel curriculum e avrà difficoltà a mettersi in sintonia con i tanti problemi che abbiamo».

Ma nel Pd in tanti dicono esattamente l’opposto: contestano la provenienza politica di Palese, ma quanto al merito delle questioni c’è chi ritiene sia giusto aspettare prima di valutare. 

«Emiliano presenta Palese come un super-tecnico, che però deve avere quelle caratteristiche che le elencavo e che viceversa non ha. Quando sarà svelata la finzione, e cioè sarà chiaro che Palese è un politico, allora avrà ragione chine contesta la provenienza dal centrodestra». 

A questo punto non poteva essere nemmeno lei l’assessore alla Sanità O ritiene di essere un super-tecnico? 

«Non ho mai posto la mia “candidatura” ad assessore e non spetta a me dire se sono un super-tecnico o meno. Fermo restando che non esistono uomini “super”, a cominciare da me». 

Su tutto ciò si innesta il nodo del congresso Pd: il partito, evidentemente, nel rapporto con Emiliano resta sempre subalterno, succube. E tutto ciò conduce, appunto, al cambio di passo per la segreteria dem. 

«I casi sono tantissimi, non solo la nomina di Palese: il segretario Pd asseconda Emiliano, e lo fa all’apice non di un dibattito, ma di decisioni prese da qualche luogotenente. Questo dimostra che il Pd non è un partito aperto nella sua libertà di decidere: bisogna cambiare e occorre un congresso con primarie aperte, come avevo proposto in estate. Bocciarono la mia proposta perché volevano il congresso delle tessere per poter preordinare il risultato gradito». 

Lei si candiderebbe, in caso di primarie aperte? 

«Per poter avere le primarie aperte bisogna cambiare il regolamento: non essendoci più un’Assemblea del partito pugliese, occorre un commissario nominato da Roma. E allora sì, in quel caso potrei valutare di candidarmi, o magari potrebbero farlo anche altri con la mia stessa idea di partito. A questo punto, chiedo alla segreteria nazionale un commissario che deliberi un congresso con primarie aperte». 

L’area del dissenso interno al Pd si amplia, ma siete sfilacciati, procedete in ordine sparso. C’è rl margine per organizzare e coagulare questo dissenso?

«Già è una bella cosa che ci siano circoli e federazioni provinciali che segnalano uno stato di disagio. Poi, certo: bisogna dare un bandolo a questa matassa. Ma già solo discutere della possibilità di un partito aperto e libero, senza condizioni di vantaggio preordinate, è un segnale importante. Dopodiché è chiaro che, qualora si arrivasse a primarie aperte, sarei il primo a sottolineare la necessità di una candidatura alternativa unica. E il terreno fertile c’è». 

Cosa intende?

«Non è un caso che tutte le più grandi riforme di queste ultime consiliature siano di iniziativa consiliare. Emiliano sa citare solo due riforme-manifesto: registro delle lobby e partecipazione, nel primo caso quasi non esiste, nell’altro ci sono non pochi problemi. Questo vuol dire che nel Pd c’è un grande potenziale per avere un partito libero e che lavora per i cittadini pugliesi».

Lei invoca l’intervento della segreteria nazionale, della quale fa parte Francesco Boccia: non È Proprio un fiero oppositore di Emiliano… 

«Sulla carta la presenza di Boccia dovrebbe essere un acceleratore, visto che conosce meglio di chiunque altro il Pd pugliese e dovrebbe favorire questo percorso di “liberazione”. Se poi vuol essere il sostenitore del mantenimento del Pd in questo stato di libertà vigilata, gli chiedo di cambiare idea». 

Lei è stato assessore con Vendola: come valuta il silenzio dell’ex governatore in questo frangente? 

«Per me c un dolore. Nel 2010 facemmo una campagna elettorale nella quale Palese ci accusò di malversazione, corruzione, mancato utilizzo dei fondi: disse cose non vere. E Vendola cosa fa? Sta ancora in silenzio e il suo partito non si pone il problema della presenza in giunta: io ho conosciuto, stimato tra mille traversie e voluto bene a un Vendola diverso».

Le liste d’attesa si riducono riformandole

di Fabiano Amati

La riduzione delle liste d’attesa pagando prestazioni aggiuntive con risorse prelevate dalle tasse dei cittadini è nel migliore dei casi un fatto sporadico e nel peggiore un’illusione. E un fatto sporadico perché una volta esaurite le risorse per prestazioni aggiuntive tutto torna come prima.
È un’illusione perché le liste d’attesa sono generate dal mancato rispetto della normativa tra allineamento dei tempi dell’attività libero professionale a pagamento e quella istituzionale, cioè a carico del servizio sanitario regionale. Con la ovvia conseguenza che l’attività a pagamento va sospesa qualora i tempi non siano allineati. E questo per ciò che concerne le visite e gli esami ambulatoriali. Per quanto riguarda invece i ricoveri, soprattutto quelli di classe A cioè i più rilevanti, l’attesa deriva dalle sacche d’inefficienza che ancora si tollerarono, con il funzionamento di unità operative che lavorano sotto l’indice di produzione previsto dal decreto Balduzzi, disperdendo personale utile ed esponendo i pazienti a maggiori rischi, perché è obiettivamente inferiore la qualità organizzativa e tecnica in unità operative con casistica inferiore al minimo Sia nel caso delle liste d’attesa per visite o esami diagnostici che per ricoveri, c’è un notevole apparato di potere che impedisce le riforme derivanti dal rispetto delle norme vigenti, innescando paradossalmente maggiori costi a carico dei cittadini, con il pagamento di prestazioni aggiuntive sia nelle strutture pubbliche che private convenzionate. E tutto questo è attestato dai dati sempre scioccanti che forse nessuno
legge, contenuti nelle settimane indice che la Regione puntualmente compila senza però prendere provvedimenti
conseguenti. Ovviamente si dirà «è colpa del Covid». Ed è generalmente una scusa, se solo si consideri che in periodo pre-Covid i dati dell’attesa erano più o meno uguali a quelli di oggi e un gruppetto di medici riuscì a condizionare la giunta regionale, nella scorsa legislatura, per sabotare la mia proposta di legge sulla riduzione delle liste d’attesa, col risultato che nemmeno il testo sabotato risulta applicato. Insomma, non si possono inseguire gli argomenti sulle prestazioni aggiuntive a pagamento, con milioni e milioni di euro, ignorando che si violano sistematicamente le norme vigenti statali e pure quelle regionali, sull’allineamento dei tempi tra le prestazioni a pagamento e quelle istituzionali. Sino a quando noi politici non saremo coraggiosi nel prendere il toro per le coma parleremo sempre di liste d’attesa irrisolte, lacrimando tm po’ ipocritamente su fatti ove abbiamo la competenza ad assumere decisioni per non far più piangere le persone. E preciso, per evitare tiritere giustificazioniste, che il problema della carenza di personale, esistente, non è un buon motivo per giustificare la lunghezza delle liste d’attesa, perché i disallineamenti si verificano – lo ripeterò sino alla nausea – a parità (sottolineo parità) di personale impiegato, prestazioni richieste e ore lavorate. Se
quindi la parola chiave della normativa è una verifica su condizioni di parità, fosse vera la dipendenza del problema alla carenza di personale non ci dovrebbe essere disallineamento nei tempi. Una grande forza di volontà, guardando il problema dal punto di vista del malato e non degli ingranaggi che regolano l’organizzazione sanitaria, sarebbe più della metà del lavoro. Così facendo c’è il rischio di rendersi impopolari alla minoranza di medici che praticano l’attività libero professionale e che generalmente sono i più ascoltati e notiziati, pure a dispetto della maggioranza dei medici che non svolgono attività libero-professionale e che in silenzio tirano la carretta dell’intero sistema sanitario regionale. Sarà anche questa una predica inutile? Può darsi. A meno che non si cominci a far parlare un po’ più la coscienza e si metta a tacere ogni forma d’accondiscendenza.

 

Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno Puglia del 08 gennaio 2022

Amati: «Mai tanti poteri a un solo dirigente Emiliano faccia pulizia»

Intervista di Vito Fatiguso, “Corriere del mezzogiorno”, 31 dicembre 2021

BARI «La Protezione civile regionale che avevamo costituito con la giunta Vendola era fondata sulla sobrietà e sulla consapevolezza che bisognava indossare le stesse scarpe di chi aiuti. Purtroppo, gli eventi degli ultimi giorni ci dicono che alcuni funzionari non hanno camminato con le scarpe dei malati, dei terremotati, degli alluvionati, degli sfollati o di chi è in difficoltà ma con le scarpe di chi vende lavori e servizi per le persone da aiutare. Emiliano avvii una riflessione politco-amministrativa». Fabiano Amati (Pd), presidente della Commissione regionale bilancio, è stato il fondatore della Protezione civile regionale negli anni 2010-2014. Poi il testimone è passato ad Antonio Nunziante, fino al 2020, e attualmente a Michele Emiliano con il dirigente Mario Antonio Lerario (arrestato con l’accusa di aver intascato una presunta tangente da 10 mila euro) scelto dallo stesso Emiliano.

Amati, c’è amarezza per quella maglia blu della protezione civile che ora sembra stinta e grigia. Cosa ne pensa?
«Non è un bel momento, è triste vedere come tutto si sia fermato alla corsa agli appalti e alle forniture. Non era questa la missione iniziale».

Prima non si lavorava con il budget?
«Certo, ma evitando al massimo assegnazioni di commesse con procedure di selezione diretta. Le faccio un esempio. Nel 2011 il prefetto Franco Gabrielli chiese di poter utilizzare la struttura ex base Usaf di Brindisi-San Vito per allestire un grande hub d’accoglienza degli immigrati. Con Vendola demmo il via libera a una condizione».

Qual era?
«Che tutti gli affidamenti dei lavori dovessero essere gestiti dalla struttura nazionale. Proprio per lasciare l’unità regionale libera di lavorare senza la fila di questuanti alla porta».

Come andò a finire?
«Alcuni amministratori del posto, capendo che non c’era la possibilità di attivare catene di fornitura privilegiata, gridarono al pericolo immigrato. Non se ne fece più nulla».

Come organizzaste il servizio?
«Ci fu prima il dirigente Giuseppe Tedeschi, successivamente Luca Limongelli e Lucia Di Lauro. Tre splendide e oneste persone. Lo staff era formato prevalentemente da personale interno e un esercito di volontari. A loro il mio pensiero grato in questo momento difficile».

Controllava l’azione dei dirigenti?
«Certo, continuamente. La Protezione civile è un settore impegnativo che richiede verifiche frequenti. L’emergenza Covid, inoltre, ha ampliato il raggio d’azione della struttura assegnando competenze gestionali che alla fine hanno distolto dalla missione originaria».

Perché non si realizza la rotazione tra i dirigenti?
«È un principio sacrosanto che è contenuto nelle leggi anticorruzione ma si fa tanta fatica ad attuarlo. Si dovrebbe fare proprio per evitare corruzioni, appunto, e pure “deliri” di potenza, come per esempio il recente proliferare di comunicazione celebrativa a pagamento. Filmati, documentari e calendari. Non certo sobrietà e volontariato. A ciò si aggiungano le gigantografie stile Corea del Nord sulle pareti della fabbrica delle mascherine».

Lerario ha ricevuto da Emiliano una quantità impressionante di incarichi. È mai successo in passato?
«Non ricordo di casi così eclatanti e di settori così rilevanti ed eterogenei gestiti dallo stesso dirigente. Già la Protezione civile richiede un impegno esclusivo. Che dire: in Regione ci sono eletti del popolo, i consiglieri, che pur tra mille difetti non si permettono licenze, mentre diverse camarille, gruppi di pressione, spendono il nome di Emiliano per fare intermediazione nella gestione dei poteri pubblici. Basta avere gli occhi aperti e osservare frequenti capannelli che si creano con andamento trafelato tra anticamere, corridoi e parcheggi. Non proprio un contegno istituzionale».

Cosa suggerisce?
«Di questa situazione Emiliano deve prenderne atto e fare piazza pulita, convincendosi che il sistema di proliferazione del consenso con liste varie, comitati a non finire e acquisizione di classe politica senza arte e figurasi parte, e il tutto in chiave elettorale, porta con se alti rischi di deviazione. Il gioco non vale la candela».

Perché ha annunciato una verifica sulla congruità delle spese della Protezione civile?
«È nostro dovere capire ciò che è accaduto nella gestione amministrativa e contabile negli ultimi anni, per una tutela anticipata e ampia della Regione e a prescindere dai reati che potranno essere addebitati a singoli a conclusione di un processo».

Il piano casa è eco-edilizia che “recupera” e crea lavoro

 

di Amati Fabiano

Il Piano Casa è uno strumento di ecoedilizia utilizzato con soddisfazione da tutti i comuni pugliesi. Concepito diversi anni fa da uno dei governi Berlusconi attraverso una legge statale, oggetto di un’intesa tra Stato e Regioni, e introdotto nell’ordinamento regionale dal governo Vendola. Sino a quando quella legge statale e quell’intesa non saranno cancellati, la validità temporale dello strumento potrà essere prorogata. E chiunque provi sdegno dovrebbe bussare al Parlamento e chiedere l’abrogazione della legge statale che lo autorizza. Ma non mi pare che da quelle parti abbiano queste intenzioni.

Abbiamo lasciato però un punto in sospeso: perché il Piano Casa è uno strumento di ecoedilizia? Perché appaga il desiderio di una casa nuova, oppure ampliata, senza consumare nuovo suolo. ll Piano Casa vale infatti solo su edifici esistenti da ampliare nella misura del 20 per cento del volume o del 35 per cento nel caso di demolizione e ricostruzione. E sia l’ampliamento che la demolizione-ricostruzione sono previsti dalla legge nazionale. E anche su questo chiunque voglia scandalizzarsi dovrebbe bussare alle porte del Governo e del Parlamento, che peraltro ha proprio di recente ampliato (anche con i pochi voti della sinistra conservatrice) il potenziale virtuoso di queste possibilità, ammettendole pure in aree vincolate e nel rispetto dei Piani paesaggistici. È inappropriato, allora, limitarsi a “bombardare” le scelte del Consiglio regionale, sia perché gli appunti dovrebbero essere rivolti ai politici romani e sia perché così facendo si confessa un diritto di parola che però non si accompagna con il dovere di conoscere ciò che si dice.
C’è chi però rilancia, obiettando: è vero, non si consuma altro suolo ma si aumenta il carico urbanistico. Ammesso e non concesso che sia così, cioè che una casa ampliata comporti la nascita di tanti bambini da accogliere oppure che una casa realizzata dopo una ricostruzione abbia maggior carico di un vecchio opificio, si fa presente che le stesse cose che si fanno con il Piano Casa si possono fare con diverse altre leggi vigenti sulla riqualificazione e rigenerazione urbana, con l’unica differenza che ampliano la discrezionalità politica e tecnica, “allungando” la catena della decisione a eventuali “manine” e minando il concetto di edilizia come atto dovuto. I temi, cioè, dell’ecologia dell’uomo, come predica Papa Francesco.
Il Piano Casa, invece, funziona con il meccanismo del permesso di costruire diretto, in caso di aree urbanizzate, oppure convenzionato in caso di urbanizzazioni incomplete. È esclusa quindi l’ipotesi del cittadino che col cappello in mano si rivolge ai potenti di turno con tutto il carico di rischi corruttivi che ciò comporta. Certo, bisogna ammetterlo, l’edilizia come atto dovuto e senza mediazioni discrezionali, toglie potere a un gruppo di pianificatori agganciati e ben remunerati, presenti in tutte le degustazioni di vini e vernissage, che pretendono di decidere gli stili di vita delle persone, affacciandosi nella sociologia e nell’olismo, cioè quella pratica dialettica che aggiunge sempre un argomento sino a quando chi parla non riesce ad avere ragione.
Il Piano Casa avrebbe il difetto, secondo i suoi detrattori, di recuperare il vecchio patrimonio edilizio, pianificato da vecchi pianificatori, senza però ricorrere a nuove pianificazioni. Ma questa è semmai la sua virtù e non il suo peccato. La normativa esclude, infatti, un groviglio illogico e improduttivo, organizzato attorno alla catena della pianificazione delle pianificazioni, per pianificare ciò che in precedenza era stato pianificato e per prepararsi alla pianificazione di ciò che sarà certamente pianificato. Una babele di regole e di incarichi professionali, che può ben giustificare le ostilità più eclatanti.

Ma perché i sostenitori della pianificazione scalpitano, eccitando molte persone in buona fede al grido “mamma gli speculatori”? Sulla remunerazione delle prestazioni professionali perdute si è già detto; c’è però un altro motivo, più culturale, che però si fa fatica a riconoscere. Si tratta dell’adesione inconscia a un modello autoritario della vita, la pianificazione appunto, che in Italia fu affermata con prepotenza da Mussolini con la legge urbanistica del 1942, nel Reich con l’opera del ministro del Führer Walter Darrè e la sua nobiltà del suolo e del sangue e in Urss con il Gosplan (Comitato statale per la pianificazione). Non a caso lo statista della libertà italiana, Alcide De Gasperi, non parlerà mai di pianificazione ma di programmazione, e non è una distinzione da sofisti. Programmare significa dare durata alle cose che si fanno, riducendo il carico di ambiguità alla parola “cambiamento”, assicurando alle persone la libertà piena nel cogliere e non perdere tutte le occasioni che il mondo e il mercato propongono, con il limite della riduzione degli impatti e con l’obbligo di tendere la mano al soldato che marcia più lento; in particolare al più prossimo, a quello più vicino, a quello che s’incontra per strada, disperato sporco affamato o problematico, che l’intellettuale di casa nostra non riesce nemmeno a guardare perché proiettato con lo sguardo alle disuguaglianze più lontane, a quelle che non si vedono direttamente e che richiedono come impegno al più qualche saggio lungo o breve, oppure autoassolutorii tweet.

Pianificare significa, invece, organizzare un modello di mondo e di vita da elargire agli altri sul presupposto che gli altri non siano in grado di provvedere a se stessi. E se la proposta pianificatoria trova resistenze, al posto delle purghe non più di moda si avanza con il linciaggio carico d’odio a mezzo social, in nome del clan di “giusti”, pochi ma rumorosi, che sanno sempre distinguere (naturalmente nelle vite degli altri e mai nelle proprie) il bene dal male, il grano dal loglio. E la consueta idea del popolo incolto e rozzo, figurarsi se muratore, che ha bisogno della mano guida degli intellettuali per non deragliare. Chi poi siano questi intellettuali, quali e quanti libri bisogna aver letto per esserlo e qual è l’autorità che rilascia questa speciale patente di guida è tutt’altro discorso.
Come altro discorso è il fatto che gli stipendi di questi intellettuali siano pagati proprio grazie alla produzione assicurata da muratori, agricoltori, commercianti e capitani d’impresa: i settori produttivi a più alta densità di posti di lavoro. Lavoro e lavori, parole magiche.
C’erano una volta politici che dedicavano l’intera vita all’apertura di fabbriche e cantieri, e che combattevano affinché in quei luoghi ci fosse rispetto per i lavoratori. Oggi, invece, ci sono politici e commentatori politici che dall’alto di uno stipendio fisso reclamano il rispetto delle condizioni di lavoro e nel frattempo “lavorano”, seduti a scrivere o in piedi a manifestare, per chiudere fabbriche e cantieri. È questo il punto su cui ci siamo persi e che qualche tempo fa ha fatto domandare, a un allibito Luciano Canfora, ma che razza di sinistra è quella che chiude le fabbriche e i cantieri? L’idea che la politica sia il tutto di ogni parte della vita e che dalla politica e dal ruolo degli intellettuali veri o presunti discenda il bene è un’idea sbagliata. È dimostrato infatti che la politica non contiene tutta la vita e tutto il sentimento, e che fuori dalla politica c’è la vita delle persone, quelle normali, la maggioranza, che pensano ancora alla libertà e ai mezzi per liberarsi dal bisogno, dalla sofferenza e dal male; da una serie di problemi molto pratici, compreso quello della casa, che l’approccio totalitarista alla politica può solo mortificare.

Il Piano Casa non risolve i problemi del mondo, ovviamente, ma aiuta a ricordare con Bukowski che “s’incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta. Tutto il resto è magniloquenza romantica o politica”. Lo scrisse nelle sue Storie di ordinaria follia. Appunto.

Intervento pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 15 novembre 2021, pagina 1

La diagnosi precoce e le lungaggini della burocrazia

di Amati Fabiano

L’obiettivo sulla carta c’è: diagnosi precoce e accesso ai farmaci innovativi, supportati dagli straordinari passi in avanti della genetica e della genomica. Facile a dirsi e difficile a farsi.
Dicono che il Mezzogiorno sia in ritardo. È così, ma il resto del Paese non se la passa poi meglio, avvolto in procedure attorcigliate intorno a gruppi di studio e conferenze, tavoli e tavolini, organizzati per non perdersi nemmeno un po’ dei poteri nuovi. Ed è così che procedure semplici e alla portata di tutti stentano a diventare prassi, immolando nelle lungaggini tante vite e tante speranze.
Andiamo per esempi, la scienza della praticità.

Primo: screening per l’atrofia muscolare spinale (Sma). Una goccia di sangue prelevata dal piedino di tutti i neonati, per sapere senza dubbi se quel mostro, che fa spegnere i motoneuroni e progressivamente tutti i movimenti, ha trovato alloggio. Casi rari ma ci sono, e portano dolore e sofferenza. C’è una legge dello Stato che sin dal 2018 impone lo screening obbligatorio e consente così di approfittare, in fase presintomatica, delle più innovative terapie, comprese quelle genetiche. Purtroppo l’attività non parte, perché da quasi tre anni si attende l’aggiornamento dell’elenco degli screening da parte dal ministero della Salute. Una sequenza raccapricciante di riunioni e tavoli, come se l’Amministrazione fosse una gigantesca falegnameria; e se per caso ci si dimentica d’invitare un qualsiasi portatore d’interessi bisogna ricominciare daccapo. E intanto i bimbi malati nascono e si ritarda nella terapia, aprendo pure conflitti tra politici accordati con la prova scientifica e scienziati arrivati in politica per dimenticarsi la scienza. Ma qualche spiraglio c’è, all’italiana, un po’ per aggiramento e un po’ per sopravvivenza. Progetti pilota, come hanno fatto in Lazio e Toscana, come espediente per dire “lo faccio ma solo come esperimento”; oppure fregandosene del galateo leguleio e burocratico, come accaduto in Puglia, e facendolo partire con legge e per tutti i neonati – altro che progetto pilota! – e con il Ministero che per pudore ha deciso di soprassedere da un’impugnativa dinanzi alla Consulta che sarebbe sembrata una commedia processuale: convenire cioè in giudizio una Regione perché osa fare prima ciò che il Ministero tarda a disporre per tutti. Dunque, Puglia per tutti i neonati e Lazio e Toscana come esperimento fanno lo screening, e gli altri neonati italiani? Niente. Una differenza di trattamento fuori da ogni grazia.

E avanti con gli esempi. Sequenziamento dell’esoma. Si tratta di una tecnica con cui dall’1 per cento del Dna si possono diagnosticare l’85 per cento delle malattie rare. Una meraviglia di predittività, con tecnologie che migliorano giorno dopo giorno, in grado di affinare la profilassi, calibrare le cure ed eventualmente sottrarsi al rischio. Escludiamo gli esiti di mera predittività del test, cioè conoscere in anticipo il rischio di ammalarsi per poi asportare gli organi obiettivo (per intenderci, il caso di Angelina Jolie), e i casi di turbamento etico per la conoscenza di una diagnosi potenzialmente infausta e però priva di protocolli terapeutici. Mantenendoci nella gestione ordinaria del test, in Italia non esiste in termini strutturali e a carico del servizio sanitario nazionale l’utilizzo della tecnica del sequenziamento, con puntualizzazione dei laboratori di genomica di riferimento e protocolli definiti. Tutto è lasciato alla buona volontà dei genetisti, i quali sono costretti a ricorrere a decine di escamotage pur di assicurare la prestazione. Nei nuovi come nei vecchi decreti sui Livelli essenziali di assistenza (Lea), ossia la “tavola” burocratica, meno accordata con i progressi della ricerca scientifica, l’allestimento avviene a buccia di cipolla. Un primo strato è la legge: dopo averla approvata sembra cosa fatta ma non è così.

Il secondo strato è il decreto sui LEA con l’elenco dettagliato e illeggibile – per volume – di ciò che si può fare, ma non basta ancora. II terzo strato è la decisione sulle tariffe di ogni singola prestazione annoverata nell’onnipresente libro Lea, quale condizione per attivare la prestazione e quale sub condizione per eseguire la legge. È un gioco? Si. Un gioco fatto di perdite di tempo con la giustificazione della complessità e della prudenza, che ormai sembrano gli antagonisti di quella particolare condizione umana che invece andrebbe affrontata giocando d’anticipo sui tempi: la malattia. In Puglia è stata approvata una legge che mette ordine e definisce la tecnica del sequenziamento dell’esoma. Prima e unica regione italiana. I tecnici del Ministero segnalano però che la prestazione non è prevista nei Lea, sempre loro, e altre obiezioni marginali e susseguenti. II Consiglio regionale ribatte che le prestazioni sono nei Lea del 2017, indicando pure i codici. I tecnici del Ministero rilanciano, allora, con la notizia che i Lea del 2017 non sono ancora efficaci, perché manca la definizione delle tariffe. Il Consiglio regionale pronto rintuzza, indicando che anche nei Lea precedenti, quelli del 1996, la tecnica è prevista. Risultato del tram tram? L’impugnazione dinanzi alla Consulta è confermata dal Governo ma non più sulla violazione dei Lea ma su altri profili marginali, preoccupandosi però di segnalare che il ricorso rappresenta un moto di equità, una sorta di misticismo fatto di glorioso svuotamento di sé per far posto all’Altro, così da evitare che i cittadini pugliesi abbiano prestazioni maggiori rispetto a quelli delle altre regioni.

L’equità, una parola ingannevole in questo contesto. Non sarebbe più equo, fuori dai moti mistici, fare in modo che tutte le regioni assicurino le stesse prestazioni piuttosto che rallentare le regioni con maggiore buona volontà? Risposta scontata. Già scriverla sembra un oltraggio. Ricapitoliamo. C’è una regione, la Puglia, che prova ad assicurare a larga scala, nell’ambito del sistema sanitario, una tecnica diagnostica di grande innovazione. Lo Stato crea intralci e i genetisti continuano a effettuare per moto spontaneo meritorio e in modo disordinato le prestazioni. Nel frattempo, le Regioni rimborsano tutte le prestazioni, sulla base dei Lea del 1996, e in attesa di avviarsi verso l’elenco più puntuale contenuto nei Lea del 2017. Ma c’è un però – teniamoci forte! -: quest’ultima previsione del 2017 consente di sequenziare solo sino a 47 geni su un pannello clinico complessivo e utile di circa 4mila. Si pensi che è di 63 geni, cioè molto di più dei 47 massimi autorizzati nei Lea, il pannello da sequenziare per la forma più ordinaria di retinite pigmentosa. E allora che succede? Semplice, il genetista spezzetta le prescrizioni, chessò una da 33 e l’altra da 30. Totale 63, ma la prescrizione è corretta perché ognuna è contenuta nel numero “magico” di 47. Ce n’è ancora? Certo.
Terzo esempio.

Le donne ammalate di carcinoma mammario, tumore molto diffuso, possono essere aiutate a evitare la chemio qualora il test genetico sul tessuto rimosso dia esito incerto. Questo test quindi (in commercio da diversi anni e purtroppo sino a qualche tempo fa non utilizzato nel servizio sanitario italiano) esclude dalla chemioterapia adiuvante le donne che da questo trattamento ne potrebbero ricevere più danni che benefici. L’Italia decide di colmare il ritardo grazie al Covid, perché – si ragiona dalle parti del Ministero – conoscere con sicurezza i casi che hanno bisogno di chemio e quelli che non ne hanno bisogno aiuta a ridurre gli accessi negli ospedali e i rischi di contagio. Insomma, questo test genetico arriva, finalmente, non tanto per colmare un ritardo ma come misura per ridurre gli assembramenti ospedalieri. In un modo o nell’altro, comunque, grazie a Dio. E allora viene adottato a maggio scorso un decreto ministeriale, concedendo alle Regioni due mesi di tempo per adeguarsi e partecipare al riparto delle risorse messe a disposizione. A settembre, probabilmente invidiose della lemma ministeriale, cinque regioni (Piemonte, Veneto, Molise, Puglia e Calabria) non avevano ancora provveduto ad accogliere la già tardiva sollecitazione. La Puglia – va precisato – nel frattempo ha provveduto; speriamo che anche le altre quattro abbiano fatto altrettanto. Per non farci mancare nulla, anticipiamo il prossimo probabile intoppo ma solo al fine di non intoppare. Alcuni studi avanzati concludono sull’utilità del test genetico da eseguire sulle pazienti affette da carcinoma mammario anche in fase pre-operatoria per valutare nel complesso tutto il percorso terapeutico e non solo la scelta chemioterapica. Senza addentrarci nei dettagli scientifici, si preannuncia dunque la necessità di aggiungere il test tra gli esami di prammatica nel percorso diagnostico e a carico del servizio sanitario. Non sarebbe il caso di farci trovare pronti? Non possiamo sperare ogni volta in una pandemia per fare passi in avanti. Può bastare?
Facciamo un altro esempio.

Andare a più di tre può emanciparci dall’anedottica alla statistica. E quattro sia. Brca1 e Brca2. E non è la sigla di un volo da Bari a Cagliari. Queste due sigle significano “Gene del cancro al seno”. Si tratta in sostanza di test genetici in grado di dirci se la maledizione di un cancro al seno è stata la conseguenza di un colpo di sfiga oppure un “regalo” genetico degli avi. La conseguenza di questa notizia ha un duplice valore nel processo di risparmio di vite umane: sia per la paziente interessata (nella prospettiva di una probabile recidiva) che per i suoi parenti più o meno stretti. Per la paziente il test è a carico del servizio sanitario – almeno questo per compensare tanta “fortuna” – ma non è previsto, sia pur con quota di compartecipazione alla spesa, per i suoi parenti perché quei test non sono autorizzati come screening generalizzato dal solito elenco Lea. E qui le valutazioni sono due. Una, l’opportunità di considerarlo, nel “librone” Lea e al più presto, quale screening generalizzato in grado di risparmiare vite umane e risorse economiche. Due, non si può accettare l’idea che possa essere considerato screening invece che una procedura di diagnosi avanzata, la sottoposizione al test di persone nella cui catena di parentela è stata riscontrata una mutazione genetica, idonea – in termini di probabilità – a far scoppiare il caso di malattia. In altri termini: c’è una persona ammalata che attraverso i test Brca1 e Brca2 riscontra la propria predisposizione genetica. Ciò dovrebbe suggerire l’estensione a carico del servizio sanitario e con il regime della compartecipazione alla spesa, del test ai familiari di primo grado (genitori, fratelli, figli), così da verificare l’ulteriore predisposizione genetica e quindi una necessaria e più approfondita attività periodica di sorveglianza, come lo può essere la più dettagliata risonanza magnetica al posto dell’ordinaria mammografia. Ma purtroppo non si può fare perché, come al solito, non è previsto nei Lea. Un non senso che ci costa in termini di vite umane e assistenza in misura di molto maggiore, come conseguenza di diagnosi tardiva o non tempestiva. E ora basta con gli esempi.

La genetica e la genomica sono scienze veloci e introducono nuove tecnologie nel tempo che la burocrazia riesce a digerire quelle precedenti e diventate già vecchie. Questo è il problema. ll plotone dell’innovazione non può marciare al passo di uno Stato che ha il gusto sadico di svolgere la parte del soldato più lento. E a questo punto si spera che a nessuno venga in mente di organizzare un tavolo tecnico per analizzare le lentezze con cui combattere la lentezza. La malattia burocratica dell’Italia in sanità è certamente grave ma per essere curata servono solo vecchie e sempre efficaci medicine: lavoro e decisione.

Intervento pubblicato su Quotidiano del Sud Bari Bat Murge di domenica 14 novembre 2021, pagina 6